Ofelia alla riscossa: arguto divertissement metateatrale
La prima scena di quest’ “Hamletelia” – un po’ Amleto ed un po’ Ophelia… – subito ci accoglie con un profluvio di nebbia – “di Danimarca…”, come avrà poi da specificare la stessa protagonista…- ed un luna lattiginosa e sfuocata -proprio come lei: persa nelle spirali dell’insennatezza, che ne iconizzano tradizionalmente il pesonaggio -: e – subito – ci si sente ‘a casa’, come quando si riconosca un luogo, in cui magari non siamo mai stati, ma che conosciamo bene per averlo visitato attraverso i racconti altrui.
E, in quest’atmosfera simil gotica, eccola: Ofelia, involuta in un ‘bozzolo’ – è stato scritto; ma che, personalmente, mi ha evocato più l’immagine di un immacolata placenta: entro cui avvolgersi, involgersi, evolversi… e finalmente paradossalmente (ri)nascere: nel ritmo bivalente della marea e dei flutti che tornano ad infrangersi sulle scoscese scogliere di Elsinore: “dove tutti sanno tutto di tutti…” e a cui lei sembra voler dare un’altra versione dei fatti: quella del ‘dubbio’… -, che riemerge dalla terra dei morti per raccontarsi – finalmente -, vendicando quel peccato di omissione, che pure rinfaccia al ‘padre’ William. E se dapprima il suo dire, pur da subito ironico e divertentemente pop – dall’allusione alla sua ‘sindrome di Stoccolma’ nei confronti di Amleto, alla vocazione, tutta femminile, d’innamorarsi per lo più di uomini intellettuali e problematici: senza possibilità alcuna di scampare allo spirito della ‘crocerossina’ – ancora molto concede alle pagine della letteratura shakespeareana – i passi salienti, non a caso, vengono recitati direttamente in inglese -, a mano a mano che la pièce si dipana, affiora una presa di consapevolezza, che la porta a staccarsi dalle vicende della propria tragedia per espandersi – in questa candida orgia di rivalsa – alle altre drammaturgie del poeta, a cui rimprovera di aver fatto di lei un’eroina inane e silente – di contro al ruolo di ben altra portata assegnato a Desdemona, Giulietta, Cleopatria o Lady Macbeth. Insomma una cavalcata – arguta ed efficace -, che spazia dal plot dell’ “Amleto” – le vicende dei cui personaggi ci son tratteggiate, sì, ma con la curiosa e graffiante compartecipazione, con cui si racconta l’ultimo pettegolezzo da ‘voci di corridoio ‘- all’evocazione del succitato full di eroine: rivivendone i passaggi clou, scimmiottandone le passioni e parlando loro a tu per tu in un ipotetico – divertente – battibecco metatemporale. Già: perché, dal momento che viene introdotta l’abilità di Amleto capocomico, il discorso rimbalza ad un livello differente: e si fa metateatrale – “La funzione del teatro è quella di porgere uno specchio alla natura”, dice Ofelia… -; fino a ché ad esser deflagrata è direttamente la quarta parete: col lancio in platea della pantegana, prima, e poi direttamente con la discesa della protagonista fra il pubblico a distribuire quelle erbe medicali – il rosmarino per la memoria… la margherita simbolo dell’amor non corrisposto… la ruta pianta del pentimento… -, che lei stessa deve ricordar di assumere come rimedio all’oblio. Il tutto in una scenografia abitata da oggetti improbabili, alcuni, ma dall’alto valor simbolico – la terra/letame, stigma della sozzura dell’amor incestuoso di Geltrude e Claudio; la pantegana/’zoccola’ alternativamente Ofelia (come lei ‘morta’ e, ancora come lei, ‘zoccola’: in quanto ‘abusata’, affettivamente, da tutti gli uomini della sua vita…) ed il di lei padre Polonio: cadavere da seppellire; le fosche cornacchie, transazionalmente identificate col funereo Amleto, ma anche con l’aspide, che diede la dolce morte a Cleopatra, suggendone il petto di lei nutrice – e, altri, in accordo alla più canonica delle iconografie – le vesti bianche, come lei: “candida come la neve, pura come il ghiaccio”: frase, quest’ultima, che allude alla sua illibatezza altrove tacciata di frigidità -; ma, animata – soprattutto – dalla performance di Caroline Pagani, autrice, regista ed interprete di questo divertissement, che non perde l’occasione per raccontarci – trasversalmente – qualcosa sul teatro: attraverso un classico del calibro di Shakespeare e senza le reticenze o il falso pudore di chi sia troppo impegnato a prendersi sul serio per ricordare la differenza fra ‘serietà’ e ‘seriosità’.
Allo Spazio Tertulliano ancora fino a domenica 20 Ottobre.