Quando la mela morsa della liberazione si appiattisce sul dorso di un i-phone
“Qualcuno che ti toglie il diritto alla felicità: questa è la mortificazione”, ripete – compulsivamente… -, nell’intervista-verità una delle due protagoniste: ed è di donne mortificate, in effetti, che si parla – per tutto il tempo… – in questo spettacolo – con leggerezza, ironia, sagacia: ma anche in modo toccante, a tratti, fino a raggiungere i nervi scoperti del proprio cuore…
Meglio: di donne auto-mortificate: dalle loro madri, forse – anch’esse donne, ma che ancora credevano nel posto fisso e nel diritto all’ autorealizzazione -, o dai paradigmi culturali, che, al contrario, sembrano volerle supinamente asservite a figure maschili, a cui non si riconosce altra valenza che quella androcratica: uomini tutti uguali ed interscambiabili, ridotti al loro solo ruolo di dispensatori di ‘cibo’, senza neppure più sapere se poi davvero ci piaccia, questo nutrimento, pur socialmente vitale; di fatto un mondo fatto di donne-in-ginocchio – tale è la posizione, anche fisicamente, per quasi tutto il tempo, delle due attrici in scena: con chiara allusione alla facilmente intuibile pratica sessuale spesso legata al mercimonio del potere… -, dove quel che le costringe sembra essere un loro auto condizionamento, anzitutto: perché la figura di ‘lui’ è talmente inconsistente, da essere resa attraverso fattezze stereotipate e anonime – un essere maschile che si esaurisce nei suoi calzoni ed in quella cravatta, con cui le soggioga, a mo’ di scodinzolanti ‘cani’, grati per qualsiasi insignificante attenzione il loro svogliato padrone si degni di concedere-; e certo non può avere la pregnanza drammaturgica di fungere – in quale che sia modo – da coprotagonista.
Ed è ben questa, la stizza di Eva: “La prossima volta che mi dai una costola, voglio roba di prima scelta!”, sembra imprecare a Dio.
Già, perché è uno spettacolo a ‘due scenari’, diciamo così, questo “Ri-Evolution”: che si apre con la Creazione – spettacolarmente resa attraverso la proiezione di un cibernetico spettacolare Big Bang (la scissione di un’ideale Bosone: con tanto di stringhe del sistema binario a modularne gli esiti…) e del conseguente buco nero, da cui tutto trae origine e che trasfigura nella ‘mela del peccato’: per poi risolversi nella fissità di un Dio-triangolo, di massonica allusione… – e, subito dopo, ecco entrare in scena ‘lei’, un’Eva inedita – decisa e volitiva -, che racconta di un Adamo invece a tal punto ‘timorato di Dio’, da inventarsi l’éscamotage del serpente, pur di trarsi d’impaccio: non riuscendo ancora – a distanza di così tanto tempo… – a scrivere le tre semplici parole: “E’ stata lei!”
E, a questo primo scenario – le cui atmosfere risultano amplificate ed impreziosite di valenze simboliche dall’utilizzo contaminatorio dalle proiezioni visive -, segue il corpus della pièce: una sorta di surreale chiacchiericcio auto consolatorio, in qualche modo – ellittico, ripetitivo, asfittico – con squarci di tv-verità, in cui ciascuna delle due, alternativamente, si confessa: con l’allucinato candore, di cui sembra si possa essere capaci solo dall’altra parte di una web cam… Due donne – la ‘segretaria stanziale’/Beatrice Fedi, ottimamente giocata sull’immagine cartoon, e la spregiudicata ‘dark-lady’/Roberta Mattei: efficacemente rese in scena dalle precise ed ottimamente sincronizzate attrici – che s’incontrano e ‘ci’ raccontano; e ‘si’ raccontano: in filigrana…
Sono due prototipi di tutte le donne possibili, accomunate – con tutte – dalla dipendenza patologica da un ‘lui’ a tal punto fantomatico, da poter perfino tornare in scena – nel finale – e spogliarsi dei suoi indumenti maschili -come a dire che non è l’uomo a volerci succubi, ma siam noi per prime a non riuscire a schivar questa trappola?-, svelandosi essere quella forte e risoluta Eva, che indusse il primo uomo al ‘lapsus’ ed efficacemente resa da Francesca Ceccarelli, ottima anche nella chiosa: un accorato: “J’accuse!” – uno sprone alla rivoluzione: “Né di testa, né di pancia […], ma di ‘fica’”, rivendicando al potere generativo femminile il diritto/dovere ad una ri-voluzione, che sappia essere ri-evoluzione, appunto -, che punta il dito direttamente contro le donne: ree, loro per prime, di averne vanificato la sua rivoluzione, svilendone il simbolo – la mela morsa -, ora ridotto al banale logo apposto sul dorso dell’i-phone…-.
Partitura stratificata, questa -che, non a caso, ha vinto il Roma Fringe Festival come Miglior Regia-, giocata sulla plurivocità delle parole – e delle suggestioni… -, lasciando trasparire la sua vocazione alla contaminazione: di strumenti e registri espressivi, certo -l’apporto tecnologico la fa da padrone; non di meno gli ammiccamenti al patrimonio pop televisivo-, ma anche di competenze -i DeMix scaturiscono dalla sinergia di professionisti di settori differenti: dalla drammaturgia alla regia, di certo, ma anche visual art designing e psicoterapia-: il tutto affidato alla traduzione scenica di tre giovani attrici che dimostrano di sapere il fatto loro. Ancora domani sera, al Teatro della Contraddizione.