#jesuis “Platonov”: la vita e la morte a tutta Cechov
Considerato irrappresentabile per la frammentarietà dei brandelli di testo ritrovati – ma anche per la complessità delle situazioni e la molteplicità di vicende e personaggi -, “Platonov”, così comunemente denominato – dato che perfino il titolo è andato smarrito… -, è il primo dramma d’impegno scritto da un allora giovanissimo Anton Čechov. Perduto – in quegli anni di stenti che segnarono la gioventù dell’autore – e poi ritrovato solo vent’anni dopo la sua morte, lo spettacolo è in cartellone dal 6 al 18 novembre 2018 al Teatro Fontana di Milano.
A portarlo in scena è la giovane, ma già ben consapevole compagnia torinese Il Mulino di Amleto, non a caso sostenuta, in questo ambizioso progetto, da enti autorevoli quali il Centro di Produzione Teatrale Elsinor e il Festival Delle Colline Torinesi.
Già, ma quale taglio ce ne propongono?
La chiave è tipicamente čechoviana e, in particolare, quella di un Cechov poco più che ventenne: c’è tutta la leggerezza di un’età ancora capace di distogliere gli occhi, sublimando la miseria della vita in burla, all’occorrenza, in spregiudicata, egoistica e necessaria passione, al bisogno, e in scelte così ferocemente dimentiche dell’altrui felicità, da non poter che essere cattivi presagi della propria stessa rovina. Così il protagonista, Platonov, per molti aspetti sembra una sorta di remake del mozartiano Don Giovanni, il cui sottotitolo – ricordiamolo – recita: il dissoluto (al fin) punito.
La trama è una sorta di zibaldone, un crogiolo drammaturgico di tutti i temi ricorrenti nella produzione matura dell’autore: il giardino, la dinamica servo riscattato/padrone in rovina, l’amore spesso equivocato fra gli uomini e quello invece, assoluto e totalizzante, per il teatro; regna la strenua convinzione in un altrove migliore – “A Mosca… A Mosca!” il leitmotiv delle “Tre sorelle” – nonostante ogni evidenza e quel misto di amarezza e incoscienza, che non può non prendere allo stomaco. E poi ci sono loro: un cast di attori affiatatissimi, capaci di giocare – nel senso più alto e intimamente teatrale del termine – con la materia čechoviana.
Spiccano i tre ruoli femminili. Roberta Calia è l’aristocratica proprietaria terriera Anna Petrovna, una sorta di Ljuba ante litteram (de “Il giardino dei ciliegi”): appena dimentica della di lei ingenua e struggente lievità, ha piuttosto il piglio della Irina de “Il gabbiano”. Rebecca Rossetti è Sasha, moglie del protagonista eppure figura silente per quasi tutto il dramma; potente sarà il suo intervento di avvicinamento e poi definitiva cacciata del consorte inetto e traditore. E poi c’è lei, Barbara Mazzi, una straordinaria Sof’ja Egorovna, di cui riesce a restituirci tutti i palpiti, i sobbalzi emotivi e le rovinose cadute emozionali con una grazia e leggerezza degni di una figura quasi angelicata, pur nella sua giocosa e tangibile carnalità. È sposata al non meno etereo Sergej Pavlovic, un Raffaele Musella trasfigurato nel ruolo dell’innamorato: della moglie, della vita, del teatro, poco conta, perché tutto sembra essere magnifico, quando si è felici, come mostrerà Kostia, ne “Il gabbiano”, di cui condividerà il tragico epilogo. Ha come suo antagonista Platonov, maestro di scuola elementare dalle ambizioni disattese, ed egregiamente interpretato da Michele Sinisi, capace di restituirci l’istrionica fragilità, ma anche tutta la rozzezza, il livore e lo spirito di rivalsa di chi si senta portatore sano del diritto di castigare la società che aveva condannato il padre a morire in solitudine, negli anni della “povertà dopo la ricchezza”. Eppure nemmeno lui è immune dal germe della falsità: lo mostreranno bene le vicende o, forse, solo quell’ inettitudine, che il padre stesso non aveva mai lesinato di rinfacciargli. Accanto a questi personaggi a tutto tondo e dalle molteplici sfaccettature psicologiche, l’immancabile maschera quasi bidimensionale del parvenu: in grado di elargire quei denari, che l’aristocrazia non ha più, in cambio mendica vane promesse di favori. Qui è impersonata da Porfirij Semenovic – uno Stefano Braschi ben misurato anche nelle scene volutamente grottesche o esplosive – e l’ancor più squallida figura del figlio Kirill, medico eppure perdigiorno ancora mantenuto da papà, reso in modo efficace da Angelo Tronca, già a partire da quelle scarpe da tennis… a stigmatizzarne i vezzi da bullo bamboccione. E poi c’è il sicario prezzolato Osip, che Yuri D’Agostino interpreta vestendo gli abiti da vita di tutti giorni, che, in generale, qui indossano solo i personaggi di estrazione popolare.
Eppure è una festa, come ci suggerisce già il chupito di benvenuto, e scorreranno fiumi di vodka, (che, in filigrana, stigmatizzano la piaga sociale dell’alcoolismo). E se questo ci catapulta immediatamente in atmosfera (poche cose attivano le connessioni neurali quanto la stimolazione gustativo-olfattiva), a esplicitarcelo sarà la regia dichiarata del servo Jakov, Giorgio Tedesco nelle vesti di uno scialla dj, che, infradito unconventional e T-shirt con garbata effigie di Čechov, sembra esserne una sorta di giovanilistico alter ego. Prima, ce lo dice in un microfono meta-teatrale e poi non smette di ricordarcelo alla consolle, da dove pizzica le nostre corde emozionali con un ticchettio tanto impercettibile quanto inesorabile; e poi musiche e canzoni pop facili facili, ergo capaci di divertirci e coinvolgerci fino a farci abbassare le difese. Del resto, questo fa l’intera regia di Marco Lorenzi: e sa farlo con quel gusto, quella lucidità e misura, che mai ci fanno sentire manipolati, ma, al contrario, co protagonisti della medesima farsa, che in fondo è la vita di ciascuno.
Così si susseguono le scene e gli atti, gli eventi, i personaggi, i discorsi e le loro variegate e maldestre aspirazioni; le frustrazioni e inettitudini si amplificano nel caleidoscopico eppur misurato gioco di scenografie mobili, capaci di creare suggestioni intimistiche e atmosfere aumentate dal volteggiare della vetrata diaframmatica e dai video in presa diretta. Come facciamo noi, ai tempi dei social: forse più spesso intenti a mostrare che a vivere, quasi che quel salvataggio/condivisione in rete – a mostra il meglio di ciò che desidereremmo fosse -, potesse essere tutto quel che vorremmo scampasse all’impietosa damnatio memoriae.