Mario Perrotta, Massimo Recalcati e la (mancata) tragedia del padre
“In nome del padre”, facile la suggestione all’incipit latino “In nomine Patris (et Filii et Spiritus Sancti)”, si propone come il primo capitolo di una trilogia sulle nuove relazioni familiari nei millennials. Al debutto al Piccolo Teatro di Milano dal 17 al 22 dicembre 2018, è scritto, interpretato e diretto da Mario Perrotta (collaborazione registica di Paola Roscioli), supportato dalla consulenza teorica e drammaturgica dello psicanalista Massimo Recalcati.
L’urgenza è autobiografica. Dopo aver esorcizzato il ruolo di figlio in “Odissea” – un’Odissea, quella di Perrotta, trasfigurata dal racconto di un Telemaco salentino contemporaneo -, ora è la figura del padre a esser messa sotto alla lente d’ingrandimento. E siccome pare che non ci sia un solo modo per essere genitore – è mandata a memoria, in questo senso, la lezione di Recalcati in “Cosa resta del padre?” -, Perrotta si fa carne e anima di tre possibili padri segni dei tempi. Le vicende vagamente intrecciate da una sfuggente quotidianità all’interno di un medesimo condominio, senza ascensore, dal sapore simil neorealista – le scale e i pianerottoli diventano inevitabile luogo d’incontro/scontro, così come le pareti, sottilissime, si rivelano impietose cortine, attraverso cui immaginare il diverso esito di vite invece ugualmente inadeguate -, a raccontarle, sulla scena, è lui, one man show, come da un po’ ci ha abituati, con un intento, in questo caso, più lodevole che riuscito.
Senza tregua, per un’ora e mezza striscia dentro e fuori da quelle identità. È il barocco e quasi anacronistico giornalista del primo piano, siciliano e dalla scrittura dotta e cadenzata, ad aprire le danze. Un lunghissimo a parte in cui condivide la stesura del suo articolo sull’ikikomori – nipponico fenomeno di auto reclusione sociale sempre più diffuso anche fra gli adolescenti italiani, come ci spiega -, che presto sfuma in vita reale. Tutto si complica, mostrando il divario fra le pur caute certezze dello studioso e le ragionevoli irragionevolezze del padre. Non di diverso tenore i cammei dell’inquilino del secondo piano – l’operaio, il lombardo, così gli altri due inquilini quando si riferiscono a lui, ma dalla caratterizzazione un po’ troppo blanda, al punto da poter sembrare benissimo anche un veneto, oltre che, a tratti, bresciano, forse – e del terzo – giovanilistico genitore partenopeo forse nullafacente, dal gustoso slang infarcito d’inglesismi e neologismi millennials, di citazioni pop e di un cameratismo lucignolesco inevitabilmente fuori luogo.
Due, i tempi ideali della pièce dalla struttura smaccatamente classica – come di gusto classico, del resto, oltre che teoricamente interessante, il parallelo fra ikikomori e atarassia. Anzitutto il lungo prologo del giornalista, che in qualche modo include e agevola le presentazioni anche degli altri due inquilini. Viene reso quasi attraverso un movimento di cinepresa, che dal basso salga a frugare le non dissimili disfunzionalità consumate nell’intimità degli appartamenti ai piani superiori, mentre il tappeto musicale, minimalista, resta invariato, a sottolinearne le analogie, nonostante le diversità di estrazione sociale, culturale e regionale, come a Perrotta urge sottolineare. Poi l’intrecciarsi degli episodi, in cui, per assenza, ciascuno dei padri vive il rapporto di negazione col figlio/a, ricalcando quasi l’impalcatura della tragedia greca. Classica è anche la scena: oscenamente vuota come un enorme antro oscuro, che sa di ancestrale e di nascita e che suggerisce quella paura-e-desiderio, che spinse Ulisse nella caverna di Polifemo. Quando s’illumina, mostra Cosa resta del figlio, parafrasando il succitato saggio. Le sagome stilizzate, minimali, afone e a stento riconoscibili del kouros di greca memoria: declinate in parabola discendente – dal Discobolo al Pensatore di Rodin (classica almeno nell’idealità) fino al Galata morente -, chissà se simboleggino la condizione dell’adolescente o piuttosto lo spettro delle aspettative/paure dei padri, si domanderebbe Recalcati
Non colpisce l’ostinato silenzio degli adolescenti – comunque rotto, in tutti e tre i casi, dai ragazzi, in accordo con la contemporanea incapacità di sostenere la tensione dell’ineluttabilità tragica -, quanto la totale assenza/inconsistenza della figura materna, più o meno giustificatamente assente, nelle tre diverse situazioni raccontate, o, quando assentatasi, sostenuta dalla riflessione/coro del coniuge: “Tua madre se n’è andata. E quando tua madre fa qualcosa, una ragione c’è sempre…”
Certo, a lei probabilmente sarà dedicato uno dei prossimi capitoli della trilogia – oltre che, è ben la figura paterna, la cifra aurea della riflessione di Recalcati -; eppure risulta arduo restare in questo parallelismo (con la tragedia greca), deprivati da quel polo dialettico irrinunciabile, nella cultura mediterranea, dalla Potnia in qua. Come si fa a pensare al tragico senza passare attraverso le figure femminili di Antigone, Medea, le Erinni, Cassandra… come si fa, in una cultura pur patriarcale come quella giudaico-cristiana, a non guardare a Ruth, Sara, Giuditta… ma anche solo alla stessa Eva – e poi a Maria o alla Maddalena?
Pur comprendendo l’intento popolare ed anti intellettualistica dell’operazione – scelta ricorrente, del resto, in Perrotta – , quel che forse manca, drammaturgicamente, è il respiro e la verticalizzazione della tragedia, a cui pure si strizza costantemente l’occhio.
Ne conseguono finali frettolosi e facili, incapaci di assolvere quanto meno al compito emozional-catartico, oltre che poco pare abbiano a che fare con qualcosa che sia più che uno scontato happy and ad usum di un pubblico, che non si voglia scomodare.
In un paio di occasioni, si allude a qualcosa di grave… salvo poi usarlo solo come montante narrativo per tener desta la curiosità. Nulla di meno efficace – nel patto narrativo, così come nella vita – di una promessa disattesa.
Così, in attesa di vedere i prossimi due capitoli della triologia, non resta che chiosare: “In nomine Patris (et Filii et Spiritus Sancti) – ma sperando che, invece, sia et filii et matris -. Ite, Missa est”.