La passione al tempo delle donne
Dopo l’anteprima degli scorsi 24 e 25 giugno, proprio in questi giorni il Libero ha presentato “Io e Julia” di Patricia Conti, liberamente ispirato a “Pentimento” di Lillian Hellman: con Monica Faggiani e Cinzia Spanò, per la regia di Massimo Navone.
A ricordarci subito che il progetto nasce da una suggestione cinematografica – il film “Julia” di Fred Zinnemann, 1977 – la bipartizione schematica fra uno schermo in obliquo – quasi a significare che quella proiezione è, in realtà, ad uso della drammaturgia, anche, oltre che del pubblico -, nella metà di destra del palco, e, nell’altra metà – lo rivelerà solo dopo, l’accendersi delle luci -, il tavolino appartato di un locale, dove si consumerà l’incontro furtivo fra le due donne.
Due luoghi distinti e complementari, quasi. Due differenti topoi: il filmato – che non è quello originale, anche se ne riproduce le atmosfere in bianco e nero – emette fotogrammi del viaggio in treno, che ha portato Lillian a ricongiungersi all’amica – dopo 13 anni… – ed assolve alla funzione narrativa dell’antefatto. Si accompagna al gioco di loro ragazzine – “Non sono Julia… Non sono Lily… sono Paris… sono un filo di perle… sono un filo di perle al collo di una danseuse…”, insinua il gioco alternato delle loro voci d’un tempo fuori campo, a spiegarci il magico stratagemma con cui fin da allora scacciavano la paura. E, per contralatare a quella finzione scenica – che la fa da protagonista, ma solo per i pochi minuti iniziali -, ecco, sul versante opposto del palco, consumarsi la scena dell’incontro reale fra le due donne. Un incontro denso – ci raccontano – accorato e giocato nello iato fra il mandato di una normalità ostentata e l’intimità negata – dagli anni, dalle vicissitudini -, che esplode in gesti repentini.
C’è un’attenzione quasi maniacale, nelle protagoniste, a comportarsi come se si trattasse solo di un rendez-vous fra amiche; fin nei dettagli: dall’apposito gesto di spazzolarsi i capelli – quasi involontariamente – al non voler avanzare le tartine del pur prelibato caviale – per non destar sospetto -, fino all’accompagnarsi in bagno insieme – come spesso fanno le donne, anche se qui il motivo di prudenza è ben più urgente e vitale. E sotto tutto ciò palpita il fuoco delle urgenze – non a caso quelle lettere scambiate che ora vengono bruciate: con l’odore sulfureo del cerino che solletica le narici del pubblico, mentre tutto attorno si fa scuro: solo un occhio di bue, sparato sul tavolino, quasi a mo’ di primo piano. E tutto ciò che è stato sublimato per troppo tempo – Julia è stata paziente, prima, e poi allieva di Herr Freud e di lui ricorda la sagacia; e che: “Con l’ironia si può dir tutto: anche la verità…” -, all’improvviso scoppia violento: lo sfiorarsi delle mani delle amiche, che naturalmente scivola in un giocoso ma illuminante braccio di ferro… l’abbraccio di Lillian – alle spalle -, che ha l’intensità e le movenze di un contatto saffico – come del resto quel lapus linguae che scivola su un erotico al posto di eroico, nel declinare i versi del beneamato poeta dei loro invaghimenti letterari adolescenziali. Poi la storia è una di quelle tanto eroiche quanto spesso non così risapute azioni di resistenza al nazismo e di messa a repentaglio della propria integrità pur di salvare altre vite umane – Julia ha già immolato una gamba, alla causa, oltre al suoi ingente patrimonio in dollari. Ma quel che davvero si vuol raccontare, probabilmente, in questa cornice di coraggiosa ed atterrita resistenza – “Tu sei fatta così – dice, più o meno, Julia a Lillian – non è che non hai paura, ma poi la superi e lo fai lo stesso…” – è un’altra forma di ostinatezza: quella dell’amicizia fra due donne che più diverse non potrebbero essere: éngagée, l’una e pronta ad immolarsi fino all’ultimo per la causa – Lillian cerca di metterla in guardia rispetto all’uso strumentale che teme stiano facendo di lei e delle sue sostanza, ma la dure-e-pura risponde: “I soldi portano morte: ma qualche volta no…” – ed ancora morbidamente ‘800sca, l’altra, persa in un ideale di impegno forse ancora un po’ romantico e sognante, ma animata da quell’altrettanto passionale generosità, che senza indugio la fa rispondere alla chiamata dell’amica. Due differenti forme di ostinazione, si diceva; ma anche due differenti forme di fedeltà, restituite in scena dai due differenti registri interpretativi di Monica Faggiani – una Lillian dalla recitazione volutamente accorata e romanticamente passionaria – e Cinzia Spanò – una Julia dalla restituzione più asciutta, consapevole e contemporanea -, quasi le due facce della medaglia – ed era già lì, fin da quel braccio di ferro -, le due declinazioni della consapevolezza femminile maturata in quel travagliato XX secolo. Sul finale torna il cantilenante gioco – “Io non ho paura… perché non sono Julia… Non sono Lily… sono Paris… […] sono un filo di perle al collo di una danseuse…” – accompagnato dalla tiritera sul soldato che non può sparare, perché il fucile gli s’inceppa: scaramantico augurio che la guerra si soffochi da sé; ma – forse – anche beffa sottile di un universo maschile qui solo evocato, ma fatto di figure fragili, evanescenti e – in qualche modo – impotenti.