Siamo tutti uno… Nessuno… AVANTI! Nel ventre (del cavallo di Troia)
Se la misura di uno spettacolo è data già dall’attenzione agli oggetti di scena, “Nel ventre”, di e con Stefano Panzeri, tratto dall’omonimo romanzo di Sergio Claudio Perroni, si apre sotto il migliore degli auspici. Già, perché entrando nel Teatro Officina (dove lo spettacolo è andato in scena dal primo al 3 marzo 2019), quel che ci accoglie sul palco – a vista, come usa – sono tagli di luce di sguincio su misteriose e affascinanti strutture lignee. Non se ne capisce subito il senso; eppure arriva fin da subito la poesia sottile, che chiede solo di essere interrogata.
Sul fondo, tre ciocchi mozzati, che si preannunciano già quali frugali, ma ideali seggi di sovrani.
Si parla degli eroi dell’Iliade e dell’Odissea, qui, e di quell’età, in cui i troni non erano per forza d’oro massiccio e i talami regali, Penelope docebat, potevano essere intagliati in alberi dalle radici ancora saldamente affondate nel suolo. Quel che attira lo sguardo, però, sono le due strutture a fil di proscenio. A destra, un quadrato ligneo coricato, incorniciato da una luce schietta, ricorda vagamente un giardino zen, con quei due sassi e il ramoscello. Scopriremo poi che è la botola della pancia del cavallo di Troia, su cui i tre eroi si contenderanno a dadi la sorte dell’ordine di uscita; ma già così profuma di un non so che di fatale e sapienziale. Quel che attrae di più l’attenzione, però, forse è la struttura sulla sinistra. Simile, nel basamento, non occorre avvicinarsi per indovinare gli oggetti che ospita: la sinuosa sagoma del cavallo di Troia ad uno spigolo e, a quello opposto, una radice frastagliata a simboleggiare la salda e inespugnabile rocca di Ilio. Sospesi, incombono tre cilindri di misure diverse con le punte rivolte verso il basso, quasi candelotti pronti a esplodere; eppure quel che rilasceranno è solo la rena della spiaggia achea, incessante simbolo di un tempo, che tutto patina e che non si può fermare. Quasi arcaico prototipo delle moderne giostrine da culla – la suggestione, chissà, forse è nutrita anche dalle linee arrotondate del cavallo, che, né dono di pace, né macchina di morte, se ne sta lì, sotto la luce morbida, con la mansueta giocosità di un ninnolo -, ci dice di una frugalità quasi infantile di quegli eroi, che l’epos amava ricordare con ben altri attributi. Eppure torna in mente anche l’umana bizzosità dell’omerico Achille privato della sua Briseide o del suo dolore straziante per la morte dell’amico Patroclo; le suppliche di Andromaca ad Ettore o la paura di quel Nessuno, che si finse pazzo – come si dice – per non andare in guerra o che, poi, si fece legare per non assecondare, impazzito, il canto delle sirene.
Quanta umanità, già in quei versi! E quant’ ancora ce n’è in questi, che incessantemente Stefano Panzeri fa correre di bocca in bocca, dando vita ai diversi personaggi.
Se scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te, ha scritto Nietzsche. È esattamente questa, la sensazione che sì ha, fin dal momento in cui per Noettòlemo, figlio di Achille, per primo spia fuori dal cavallo attraverso la feritoia/fascio di luce, che ci mostra il fuori solo attraverso gli sguardi accecati degli uomini stipati nell’oscuro ventre del cavallo. La scrittura, aulica, racconta delle paure irrazionali non solo dei tre eroi – Noettòlemo, smanioso di comando, Ulisse, ideatore del cavallo ed Epèo, colui che lo realizzò -, ma anche di quelle dei soldati, a tal punto stipati nel concavo legno, da trafiggersi e uccidersi, involontariamente, nell’ombra. Impossibile non pensare alle navi dei migranti: sembra di vederli, quegli identici occhi, spalancati dalla speranza o sgranati dalla paura, in un buio fittissimo e quel groviglio di corpi ammassati, dove basta un nonnulla per essere infilzati o scaraventati fuori bordo, magari senza nemmeno accorgersene… Viviamo la loro stessa allerta febbricitante, le pause, le fantasie disperanti – chissà che non sia stato solo un trabocchetto degli altri greci per scamparsene a casa sani e salvi – e poi le le speranze, quando il cavallo inizia a muoversi, e lo sgomento, ad ogni morte imprevista, prima ancora che la pugna abbia inizio. È l’allucinazione – il sogno -, sempiterne demone che mai abbandona gli uomini, qui incarnato nella figura femminile di un’Atena, che sembra giocare come il gatto col topo, con le menti provate di eroi e soldati. Già, perché in fondo di questo ci parla “Nel ventre”: dell’umana – ahi, troppo umana, per restare a Nietzsche – schiatta degli uomini. Ed è efficacissimo Panzeri – autore anche della riduzione drammaturgica, oltre che delle suggestive scenografie e regista, insieme ad Andrea Paolucci, e attore in scena -, nel far volare, col suo tono volutamente altisonante – per accordarlo alla scrittura lirica e preziosa –. parole scelte e minutamente cesellate nelle bocche di personaggi dagli occhi senza fondo. Bello, il suo costante guardare – a prescindere dal soggetto parlante – verso un orizzonte che non c’è, né avrebbe potuto esserci, in uno spazio così angusto, da restituire lo sconfinato spettro della paura, della speranza e del sogno. Accecati dalle tenebre, dalla paura, dall’ambizione, dall’urgenza di porre fine a tutto questo, poco conta, i suoi personaggi contano meno di niente. E così: “Avanti!” – il solo nome con cui i generali chiamano i loro militi – è il monito che li accomuna tutti: gli anonimi soldati, che fra loro si chiamano solo col venerato nome della terra da cui proveniamo – spiega un anonimo oplita -, ma anche quegli eroi che qui, smesse le armi lucenti, si mostrano in tutta la loro umana fragilità.
È il portento dei contrari, cifra ricorrente della poetica narrativa, qui declinata in mille rivoli di senso. È portento dei contrari quel procedere a ritroso del cavallo, che mentre allontana dagli alleati chissà se “in fuga” solo apparente, avvicina nemici, che abbatteranno parte delle mura pur di farlo entrare. È portento dei contrari che, mentre ci si trovi di fronte al bivio, consci che la strada la fa la prua e le prue non hanno altra strada che non sia avanti – come insinua l’onirica Atena a Neottòlemo -, poi però venga svelato che, sì, quando arrivi a un bivio, anche tornare indietro è strada. È portento dei contrari l’inversione di ruolo fra il giovane figlio di Achille e l’astuto Ulisse, che sembra invece impazzito, nell’illusione della voce della moglie, così da rischiare di mettere tutto a repentaglio; e similmente lo è la beffa dell’eroe che vince la morte ai dadi ma non vive abbastanza da morire in modo eroico. È portento dei contrari la paura – paura del sangue, paura del male, paura del dio, paura di sé… rimbomba, a ondate, come lo schiocco dei tamburi che montano col pathos del racconto –, cifra di quest’umanità tanto friabile quanto vocata all’invulnerabilità, che non può che non scrutarci dentro, dal fondo del comune abisso.