Quando “Il ragazzo dell’ultimo banco” sale in cattedra
Ci sono testi che si offrono ariosi e lineari come la rassicurante vista della superficie di un lago: lo sguardo spazia e la mente può sconfinare indisturbata senza timor d’inciampo. E poi ci sono i testi-trappola: pensi di averli inquadrati fin da subito, sì, ma all’improvviso scattano, attivando meccanismi, che proprio non avevi considerato.
Di quest’ultima natura è “Il ragazzo dell’ultimo banco” di Juan Mayorga, per la regia di Jacopo Gassmann, in scena dal 21 marzo al 18 aprile 2019 al Piccolo Teatro di Milano.
La trama è apparentemente semplice: il rapporto fra uno studente – e il fatto che sieda all’ultimo banco è un topos, che già ce lo fa presagire come problematico e, probabilmente, geniale – e il suo professore di Letteratura. Quel che la mente non considera – o, quanto meno, non subito – è che il loro rapporto, alla “Capitano, mio capitano!”, possa invece evolvere a puntate come ne “Il mondo di Sofia” mutatis mutandis.
Chi non ricorda il film “L’attimo fuggente” e il suo meraviglioso Professor Keating, interpretato dall’indimenticato Robin Williams? Soltanto un paio d’anni più tardi andava alle stampe il romanzo di Jostein Gaarder, che faceva, della storia della filosofia, poliziesca occasione per un corto circuito fra quel sapere apparentemente ozioso e inutile e la realtà. Così cerca di fare, a pillole, il docente di filosofia di questa drammaturgia, che a noi è dato vedere soltanto attraverso gli occhi degli studenti.
È tutta una questione di punti di vista. C’è quello di Germàn, il professore di Letteratura, appunto, e quella del suo allievo Claudio, co-protagonista/antagonista – perché, se non c’è conflitto… si sa: la trama non funziona, come gli spiega lo stesso Prof. E poi c’è quello di Juana, moglie del Professore, a cui lui fa leggere gli scritti del ragazzo e che funge da coscienza nel metterlo in guardia dal procedere in un gioco tanto rischioso…
E poi c’è lei: la trappola per topi. È la casa normale di una normale famiglia della borghesia, che Claudio, figlio di una marginalità quanto mai lontana da tutto ciò – intuiamo -, spia da fuori. Lo fa così a lungo, da non poter resistere alla tentazione di entrarci. Nasce così il piano: barattare lezioni di matematica, in cambio di quelle di filosofia, col compagno che vi abita.
Già qui la regia s’intesse con la drammaturgia. La casa, dapprima solo asettica proiezione ortogonale in bianco e nero e da studio architettonico, si fa sempre più particolareggiata. Finisce con l’acquisire una tridimensionalità prospiciente e invasiva di quello spazio in mezzo al pubblico in un primo tempo occupato solo dall’intimità della casa di Germàn.
Altro elemento interessante è che non vediamo mai la vita di classe. Tutto ci viene raccontato dal triplice sguardo del ragazzo – attraverso i suoi temi-a-puntate, rintuzzati da un: “Continua…” -, quello del professore – che li legge (alla moglie) – e quello di Juana. Lei sembra davvero essere consigliera e gran burattinaia di quel professore forse troppo simile al ragazzo per intuirne davvero i limiti e i rischi.
È tutta una questione di punti di vista, si diceva – al punto che finiamo col fare nostri i dubbi di Germàn. Chissà se davvero il racconto di Claudio è solo parodia, rappresentazione o presentazione. Di certo questa scrittura efficace e stratificata – e capace, complice anche la regia lucida e instancabile, di tener desta l’attenzione per i 130 minuti del tempo unico della rappresentazione – tocca e offre vari livelli di riflessione. Così, sotto quest’ideale lente d’ingrandimento drammaturgica, vengono amplificati e problematizzati il rapporto fra pubblico e privato, fra lecito e ciò che non lo è… Ci si spinge fino a chiedersi dove il diritto di narrazione debba arrestarsi, pur al netto del bisogno che la gente ha di storie. Ancora. C’è una sottile diatriba su cosa sia l’arte – specie quella performativa e contemporanea, che, nelle sprezzanti parole del professore, non sembra aver una propria identità indiscutibile – e il suo storytelling – cosa che fornisce a Germàn anche l’occasione per sminuire quella scrittura, che, dimentica del suo status e dignità letteraria, si pieghi al servizio della commercializzazione. Si parla di rapporti umani: di dove e come il diritto alla propria autodeterminazione debba scendere a patti con i doveri o, meglio ancora, con le responsabilità assuntesi nei confronti di altri. Si parla di famiglia e di fare squadra, di lealtà, di amicizia (bramata, mancata o sconosciuta) e dei primi invaghimenti adolescenziali… E poi ci sono i rudimenti di come si scriva – certo, volutamente opinabili, proprio a rivendicare l’incontrovertibilità del punto di vista. E si è così attenti a segnare gli errori altrui, da sconfinare nella violenza della cancellazione di un intero testo scritto alla lavagna. E dov’è, allora, il confine fra insegnamento e umiliazione, fra idealità e pedagogia?
Ma, soprattutto, c’è una storia, fatta di esseri dall’umanità così prosaica, da non potersi ascrivere a un finale compassatamente letterario. Così la padrona di casa, quella stessa che aveva attirato Claudio col suo profumo di donna del ceto medio, benché descritta come la donna più annoiata del mondo, non farà la stessa fine di Madame Bovary. Sorprendenti, in effetti, sono gli esisti di tutti i personaggi ‘minori’. Figure solo abbozzate e bidimensionali nella rapace scrittura iniziale del ragazzo, acquisteranno, via via, una rotondità, proporzionale all’evolvere del suo stile. Ma poi forse la vita è più complicata di un romanzo (seppur) ben scritto: questo, forse, il messaggio finale.
Juan Mayorga lo affida, come si diceva, a una regia – quella di Jacopo Gassmann, che dimostra di non aver bisogno di ombrarsi dietro a un cognome così ingombrante -, che non smette per un istante di zoommare e raccontare. Senza fatica, Gassmann sposta il nostro occhio esattamente laddove gli interessa che guardi, nonostante abbia a sua disposizione i mezzi del teatro, che è linguaggio così diverso da quello del cinema. Ma il messaggio è affidato anche ad un cast di attori che, primari – Danilo Nigrelli (il Professor Germàn), Fabrizio Falco (Claudio, l’allievo) e Mariángeles Torres (Juana, la moglie del Professore) – o comprimari – Alfonso De Vreese (Rafa figlio), Pierluigi Corallo (Rafa padre) e Pia Lanciotti (Ester, donna borghese, madre e moglie, rispettivamente, dei due Raffa) –, lo portano avanti, in un eccellente lavoro di squadra. Eccoli, i meccanismi di questo non scontato e poliedrico lavoro teatrale. Smorzando le luci al punto giusto – così da farci sentire parte, senza però violare la magia del patto teatrale – e tenendo continuamente desta la nostra attenzione anche grazie a un costante movimento/reinvenzione dello spazio – e non era così scontato, in un testo tanto ‘verboso’ -, ci accompagna nelle sue atmosfere realissime eppure sospese come l’impercettibile tintinnare del tappeto sonoro sofisticato e minimale di Lorenzo Danesin.