“L’Ospite” di De Summa ovvero un divertissement sullo Spirito del Tempo
È un testo strano, “L’ospite – una questione privata” di Oscar De Summa in scena al Teatro i di Milano dal 5 al 10 giugno 2019. Un progetto che vede il sostegno di Catalyst, di Giallomare e del Centro di Residenza della Toscana (Armunia Castiglioncello – CapoTrave/Kilowatt Sansepolcro), eppure il risultato sembra esser un laboriosissimo zero. È una drammaturgia, che getta moltissimi (troppi?) spunti sul tappeto e poi gioca a mixarli in salsa pop, ammiccando al cinema e alla cronaca, alla ricerca di un fin troppo facile consenso urbi et orbi.
Intanto quel che stupisce è l’orizzontalità del pensiero, confermata anche da una regia (di Ciro Masella, pur splendido interprete, in scena, insieme al non meno capace, ma forse qui sotto sfruttato, Aleksandros Memetaj) a tratti a sua volta ingenua e di maniera. Così se il plot racconta di un uomo che, rincasando, sorprende un ladro in casa propria, fa quasi sorridere l’allestimento. La violenza della violazione ci viene invece restituita attraverso un paio di lampade compostamente rovesciate, una a destra e una a sinistra, e raccordate da un arcobaleno di abiti. Questa, per lo meno, è la forma in cui sono disposti, in buon ordine, per terra. Le tinte, al contrario, sono così smunte e anonime, che si fatica a distinguere quelli maschili da quelli femminili – e perfino la tutina della figlioletta, che pur darà avvio ad una riflessione quasi patetica sulle gioie e sull’inversione delle priorità nella paternità, dev’essere additata espressamente, ché, bianca com’è, la si confonde in quella monotonia di ecru alternati ad anonimi colori più scuri. Fa sorridere anche quel legare col nastro adesivo il topo d’appartamento, che in nessun modo effettivamente lo blocca (ciascuna gamba, ad esempio, viene scotchata a sé e senza essere fissata al sostegno della sedia); e se la grammatica della messa in scena ci suggerisce che non ci muoveremo certo in un registro naturalistico, non basta a stornare il dubbio che si tratti (anche) di un pastiche, che non riesce a conciliare in altro modo con l’esigenza di mobilità dello stesso attore in altri quadri narrativi.
E cosa succede, se qualcuno irrompe a falsare il già precario equilibrio di questo tutto per bene, nonostante tutto? Quale sia la condizione mentale ed esistenziale del protagonista lo restituiscono bene il guizzo recitativo di Masella – benché in questa pièce forse meno spregiudicato di altre volte, chissà, forse un po’ suggestionato dal modello recitativo di De Summa – e la scrittura, in un paio di fulminee immagini soprattutto. È il racconto, ad esempio, che lo stesso protagonista sputa in faccia al malcapitato ladro, della snervante monotonia di una vita piegata in un lavoro, più subito che scelto, con la sola – magrissima – consolazione di potersi comprare beni di riscatto, quindi ipso facto sovraccaricati di un surplus di valenza simbolica e sociale. Riecheggia il concetto verghiano di roba, anche se manca, qui, quella dimensione eroica, capace di sublimare il sia pur deprecabile accumulare in un ostinato tentativo di essere. Quel che resta è un omuncolo similmente meschino e incapace di resistere alla tentazione di farsi giustizia da sé.
Già, perché questo, in fondo, è il punto: se sia legittimo ribellarsi al sopruso del prepotente – e non importa se sia chi s’intrufola furtivo nelle nostre abitazioni a profanarne l’intimità o l’arroganza del padre, del detentore della legge o semplicemente del diritto di chi, aggredito, si senta legittimato a volgersi da vittima a carnefice.
Ma tutto è liquido, qui, e liquidato in piani che si sovrappongono. Vale lo stesso citare i Led Zeppelin o i The Cure o inscenare i dettagli della sequenza cult di un celeberrimo film splat. Tutto vale tutto: al punto da non capire che non è lo stesso scimmiottare i clichés dei telefilm polizieschi con cui blandiamo le nostre casalinghe serate di noia o scomodare scottanti pagine della recentissima cronaca politico-giudiziaria come quella, ancora dolorosamente aperta, del Caso Cucchi.
Così, forse sì: cifra precipua di questa bizzarra e a suo modo irriverente scrittura di De Summa è proprio quella di essere tipico prodotto dello spirito del (nostro) tempo. Coi suoi sberleffi deride la seriosità del teatro borghese senza quasi rendersi conto che nulla è più convenzionalmente accettato, oggi, che l’istrionismo dell’irridente. Così, non retrocede di un sol passo di fronte al politically incorrect, fino al parossismo di riscrivere un contemporaneissimo sorprendente coro in quelle fasi sospese della narrazione, in cui i protagonisti si dicono – e ci dicono -, quanto patetici siano certi facili giustificazionismi, a cui tutti tendiamo inconsciamente ad aggrapparci. Qui è efficace la regia di Masella, che ce li restituisce sub species di quasi larve purgatoriali: lumicini tremuli e solinghi, vocine insicure rese ancor più evanescenti da un’amplificazione che le deforma in querule eco.
Peccato: perché la bravura di entrambi gli attori l’abbiamo già testata in molti altri spettacoli; peccato perché, a operare una scelta, forse anche il testo avrebbe potuto dire di più.