Valter Malosti e l’ancor necessario Monito: “Se questo è un uomo”
Dall’8 al 20 ottobre 2019 al Teatro Franco Parenti di Milano, “Se questo è un uomo”, di Primo levi, messa in scena di e con Valter Malosti, è una sassaiola di granate, che non da tregua.
Il palco scarno eppure abitato da dettagli scelti con cura – l’acciottolato di lastre di ardesia, come in certe vie dell’epoca che fu, il calorifero in ghisa striminzito e la lampadina spoglia, a perdersi, quasi, nell’enormità del palco vuoto – suggeriscono desolazione, solitudine, impotenza… Alla stessa stregua le due figure spettrali, che accompagnano a tratti, la narrazione, impersonate dagli intensi Camilla Sandri e Antonio Bertusi.
Al centro lui: Primo Levi/Valter Malosti a sciorinare pagine e pagine – e… pagine: per un totale di quasi due ore fitte fitte di parole, immagini, pensieri, ricordi, riflessioni impeccabilmente performate – di quel capolavoro, che, come spesso capita, non fu immediatamente accolto con favore dagli editori. Due furono le bocciature clamorose: Natalia Ginzburg a Cesare Pavese, che guardarono con sospetto all’ennesimo libro “a tema lager”. Eppure, a distanza di 70 anni – la prima pubblicazione fu nel 1947 -, il testo colpisce ancora per la sua necessità.
Questo fa il teatro: mantiene la memoria e accende le coscienze, svelando quel filo rosso, che ancora serpeggia, sotteso a situazioni e fatti così apparentemente lontani e differenti.
Così, in quest’epoca, che ci piace pensare emancipata, moderna, solidale, empatica, resiliente e certo avulsa da quella barbarie e da quegli orrori, arrivano come una stoccata – peggio: un diluvio di stoccate! – quelle parole fatte più per testimoniare e cercar di dare un senso, che non per accusare. Eppure l’accusa – sociale, coinvolgente – c’è. E non è tanto quella harendtiana della banalità del male. L’accusa, piuttosto, è quella umana – ahi, troppo umana, per citare quel Nietzsche, che lo stesso Levi chiama in causa, intitolando uno dei capitoli Al di qua del bene e del male – di chi vede, ma a tal punto è stato prostrato da non aver più neppure la forza di piangere un uomo tanto de-umanizzato, da non saper reagire nemmeno all’apice dell’abisso. E come si ottiene tutti ciò? Ce lo spiegano bene Primo Levi e Valter Malosti, che, con Domenico Scarpa, ha curato la condensazione scenica.
È qualcosa che oltrepassa il ciceroniano Dìvide et imperat. Certo, anche questo; eppure c’è qualcosa di più subdolo, sottile e quasi perverso. Si tratta non solo ridurre l’uomo allo stato primigenio di ferinità/paure del diverso in quanto potenziale nemico – “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente […] Ma quando questo […] dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”, scriveva Levi –, ma di umiliarlo a tal punto, da negarne ogni qual si voglia identità – quanto siamo lontani, qui, da quel principio individuationis, che aveva fatto dell’uomo la misura di tutte le cose…
Strappato ai suoi affetti – straziante il racconto di come le famiglie venissero separate, fin dall’arrivo nei luoghi deputati, anche se, nel racconto di Levi, sorprendentemente si dice di una qual certa tolleranza apparente, in principio, nell’assecondare le richieste delle madri di restare coi figli: prodroma del fatto che, tanto, a queste era già destinata la via delle camere a gas… -, deprivato della propria identità fisica – tosato, costretto all’umiliazione della nudità aggrava dal gelo dell’inverno polacco e poi a indossare divise depersonalizzanti, calzature inadeguate e da strappare, una scarpa alla volta, in una riffa bestiale l’un contro l’altro armati -, neppure il nome era conservato loro: ben noto il tatuaggio numerico sul braccio sinistro, a stoccaggio dei pezzi di deportati che facevano via via il loro ingresso nei campi di sterminio, né il conforto di un idioma comune – cosa che Levi non manca di sottolineare, al punto da definire il lager una perpetua Babele.
Eppure la regia e messa in scena di Malosti scelgono di non indugiare né su un pietistico patetismo, né su una retorica fin troppo facile, a posteriori. Lo spettacolo inizia con una suggestiva scena vuota: solo una delicata nevicata in blu, a fil di tulle, e, sullo sfondo, le parole di un coro fuori campo, dalla composta gravità della tragedia greca, ma scomposto nella polifonia di voci asincrone, quasi a suggerirne la molteplicità, sì, ma, forse, anche che la loro eco risuona ancora fino a noi. Scandiscono i versi della poesia di Levi Alzarsi; ed è tutto già qui: nella densa pesantezza di un sonno certo non ristoratore e in quel repentino comando straniero “Wstawac’!” – “ Alzarsi!”, appunto -, che non avrebbe mai più smesso di perseguitarlo.
Pur parlando del lager, infatti, Malosti sceglie di farlo attraverso la figura civile di un Primo Levi prima e dopo il lager: nessun filo spinato, in scena – il solo accenno è detto attraverso quella sua cattiva presenza, che ce lo sustanzia pur attraverso l’assenza -, ma il chimico, lo scienziato che, saldamente piantato a centro palco – il doppio petto, il lungo paltò e la valigia dicono sì della partenza e, chissà, fors’anche del ritorno –, si fa narratore e testimone. Ecco, probabilmente fu questa, la sua ragione di salvezza; certo, le fortuite circostanze che lo portarono a vivere una situazione in qualche modo di privilegio all’interno del lager – sia per il fatto di riuscire a superar l’esame ed essere ammesso alla mansione di chimico, sia per un paio di incontri, che lo aiutarono a ridiventare lentamente umano -, ma, soprattutto, quel suo bisogno di raccontare, testimoniare, capire, pena la maledizione implicita in quello Shemà, incipit della narrazione a forma della preghiera quotidiana del popolo d’Israele e che Malosti vuole proiettato/transustanziato sullo stesso corpo del protagonista. Quasi che non sia più la croce, il vero scandalo – il Dio fatto Uomo e ucciso nella maniera più ignominiosa – , ma questa barbarie: perpetrata dall’uomo contro l’uomo.
Uno spettacolo necessario, quindi, come si diceva, in questo centenario dalla nascita di Levi: un monito contro i tanti “Voi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case,/voi che trovate tornando a sera/il cibo caldo e visi amici” a: “Considerare se questo è un uomo… se questa è una donna…”.
La guerra è finita e le grandi ideologie anche (??!): eppure la disequazione fra i popoli ancora no.