“Le Signorine” Isa Danieli e Giuliana De Sio mattatrici nella farsa di Gianni Clementi
Si assaporano tutti i colori della farsa napoletana, ne “Le Signorine”, di Gianni Clementi. Interpretato da due strepitose mattatrici quali Isa Danieli e Giuliana De Sio, l’impeccabile direzione registica è affidata a Pierpaolo Sepe.
Quando la comicità si fa ironia, sberleffo, riso (amaro), quando l’arguzia swinga in una verità, che ha in sé anche il suo contrario, quando la quotidianità squarcia la banalità dell’identico nei cocenti picchi dell’indicibile, ecco: quando tutto ciò accade, siamo certo di fronte ad una scrittura alta. È la stessa, che affonda le radici nella tradizione popolare partenopea, che, dai De Filippo, viene avanti fino a Ruccello, per citare solo un paio di nomi.
La narrazione è ambientata ai nostri giorni, eppure, in scena, troneggia lo spaccato di una casa partenopea piccolo borghese dall’aroma un po’ appassito.
La porta d’ingresso, sullo sfondo, e poi il corridoio, su cui – a destra e a sinistra – si affacciano le stanze. Centro focale dell’azione è la camera di Addolorata (Giuliana De Sio). Benché sia la minore delle signorine, è una donna già sulla cinquantina, anche se non ha mai vissuto. Le sue giornate si consumano negli estenuanti/esilaranti battibecchi con la sorella Rosaria (Isa Danieli) di una ventina d’anni più grande di lei e che, come lei, trascina la sua esistenza con la stessa compita e sghemba fatica con cui si trascina la gamba offesa.
E già qui siamo in piena Napoli: in quelle case che odorano di una miglior sorte che fu e di cui ora non restano che consumate vestigia. Le mattonelle dei primi del novecento, quei mobili troppo ingombranti e demodé per trovar spazio negli essenziali micro appartamenti di oggi e l’arte dal sottile gusto decadente di giustapporre cose spaiate senza un’apparente intenzionale perizia – se no, lo chiameremmo patchwork: e allora sì, che sarebbe cool… –; tutto ciò ci proietta in quel teatro fatto di attenzione al dettaglio, cura, sacrificio e freddo, che fu di Eduardo.
Ma Napoli – e la cultura del Mediterraneo – è anche nel delirio a deux delle sorelle.
Quante volte lo abbiamo visto nei ruoli antagonisti di Tina Pica e Titina De Filippo e, prima ancora, nelle sorelle de Lo cunto de li cunti e, all’indietro, fino alle Graie, che si contendevano l’unico dente e il solo occhio.
Così, sospesi fra l’oggi e un mitico tempo fuori dal tempo – e, anche questo, quanto sa di Ruccello, sì, ma anche di Mimmo Borrelli -, assistiamo alle sempiterne contese delle due signorine. Sopravvissute, pare, quasi solo per assolvere all’eroico mandato di conservare la roba di verghiana memoria, si auto condannano a un’economia di sussistenza, pur di tenere il vita la merceria ereditata dai genitori, ma ora di certo fuori dalle feroci leggi di un commercio sempre più Made in China. Già, ma per chi, se, dopo di loro il diluvio?
Si originano da qui le divertenti scaramucce fra le due – l’una lugubre e conservazionista, adolescenziale, l’altra, e che vorrebbe potersi godere un po’ di quella vita, che le è già scivolata fra le dita, per la maggior parte…
Poi l’incidente dell’attempato cugino, che sposa la giovane e procace badante moldava della madre; e tutto precipita.
Eppure non si tratta solo di una commedia.
Se l’incipit è allegro e scoppiettante – le sorelle quasi solo pur impeccabili caricature bidimensionali -, con lo svolgersi della narrazione, le due acquistano rotondità e spessore psicologico. Tridimensionalità acquisisce anche l’azione scenica. Pur senza muoverci dall’asfittica casa dall’implicito odor di naftalina – non a caso, quel ripetuto rifugiarsi di Addolorata nell’abbraccio del”armadio, che domina l’intera parete posteriore di camera sua -, siamo proiettati nel vivo delle vie e della cultura popolare napoletana.
È la voce del sedicente Mago, che, dallo schermo del televisore, prevede, ammonisce o blandisce, sì, ma senza scordarsi di ricordarci di telefonare al numero a pagamento – ché la felicità si può ottenere solo privatamente…
Sono le parole di Rosaria al ritorno dal mercato: “Sai quanto te la fanno pagare una camicia i cinesi? 4 euro. – per subito dopo amaramente constatare – Nui, nu buttune, cinc’ euri…” Fa sorridere quel suo populistico farneticare:“Gialle… nere… beige… Questo non è un Paese: è un circo!”, ma poi come una stoccata l’affondo: “Ma nella gabbia ci stanno mettendo a nui”.
Così il nome Alina viene storpiato in Aliena e per l’oltre ora e mezza di spettacolo non mancano le battute e gli accapigliamenti, a stigmatizzare il mondo fuori e dentro le mura di quella casa.
Gran parte delle frecce, infatti, vengono scoccate contro la falsità delle convenzioni familiari nel tira-e-molla, che mortalmente avvinghia le due nel loro patologico doppio legame.
Per il pubblico milanese, la commedia è godibile al Teatro Franco Parenti fino al 3 novembre 2019.