Nella tana della paura
Se c’è un’idea che il termine tana evoca è certo quella di rifugio, protezione e riparo. Ma poi anche di isolamento, perché, la tana, ce la immaginiamo nascosta, al buio; scavata nella terra, magari, o, comunque, in un qualche anfratto. C’è un salto semantico importante fra tana e casa: la casa – viene poi subito naturale l’ulteriore distinguo fra haus/abitazione e home/focolare domestico, inteso come il luogo del privato, dell’accoglienza e della propria intimità – allude ad un concetto in qualche modo anche relazionale e socializzato. La tana no: la tana dice solo paura, chiusura e di un ancestrale bisogno di riparo, isolamento e fuga da una realtà esterna vissuta come minacciosa. Una sorta di regressione ad uno stato animale, dove a farci cortocircuitare è proprio l’istinto di sopravvivenza.
Tutto ciò a monte anche di “Tana”, spettacolo di Valentina Gamna con Marta Mungo, in scena al Teatro Scala della Vita il 14 e 15 Febbraio, all’interno della rassegna “L’altra faccia dell’Amore” – ricordiamo anche: “Mishima Bondage”, presentato il 18 gennaio, e “Amore no”, che lo sarà l’8 maggio.
La tana di Natascia – il suo nome lo apprendiamo dal foglio di sala: sulla scena è talmente irrelata da non aver neppure l’occasione di pronunciarlo – è il salotto di casa sua, restituito dall’essenzialità di una poltroncina – bianco: sporco… -, un mobiletto – anch’esso bianco – con sopra una tv portatile – anni “70: bianca; a sintonizzazione manuale. E lei che ci combatte: dapprima nel tentativo di restare sul canale che le interessa – l’amore: questa, la sua preferenza -, poi, una volta trovata Colombina Impomatata – una presentatrice, forse; o: un’intrattenitrice… -, azzera l’audio ed inizia il suo monologo-fiume, in questa tana/gabbia mentale. Un discorso cordiale, da chiacchiere fra amiche, in principio: dal fatterello della querelle coi vicini, come capita, a causa del volume della tv – l’occasione è data dal commento della vicina: “Non ha figli, Lei… non può capire”, a chiosare la richiesta di mantenere il sonoro basso per non svegliare il figlioletto dormiente – al racconto della sua vita – già, perché anche se ora è sola, non è vero che lo sia sempre stata: 4 mariti, ha avuto: e pure un figlio… Così si succedono, nel racconto, fatti e uomini, che l’hanno abitata: ogni ‘scena’ uno stilema. Così se al principio lei ci appare vestita di bianco e con un maglioncino nero allacciato sopra – ma a bottoni sfasati: come capita, talvolta, infilando qualcosa nella fretta di sentirsi coperti -, durante l’evocazione del meraviglioso primo matrimonio, invece, lo sfila: restando con quell’abito bianco che ben rende l’idea della mogliettina perfetta e svolazzante. Ma poi l’incanto si rompe – “L’Amore stanca… La felicità è noiosa… Ci vuole almeno una tragedia…”, dice: in un gioco di verità e dissimulazione, in cui si fatica a comprendere cosa mistifichi e cosa no… Né la nascita di Mirko è sufficiente a contenere quello che lei chiama il suo volersi fare del male ed essere una dea, come in una soap opera – come nel ‘precedente’ di Erik, l’amico di famiglia… In fondo è proprio questo fatto a dare un senso a tutto quello sfascio affettivo-relazionale – le luci ne sottolineano la drammaticità, abbassandosi; ed anche il tono di lei, che smette, per un un istante, di essere cinguettante ed assume, invece, la grevità del: “Erick mi seduceva o io seducevo lui?”. Così non fa specie il proseguo in toni rosso-coniglietta della burrascosa liason con Angel – la madre: prima le porta via il bambino, con la scusa di una vacanza e poi viene a riprendere pure lei: trascinandosela via, per i capelli -; bianco clinica – è ancora la genitrice a procacciare il matrimonio apparentemente perfetto, quello con Samuel, benedetto dalla restituzione del pargolo -; e, di nuovo, lugubre coprispalle, quando pure quello si sgretola ed è lei ad andarsene – trascinandosi con sé il figlio adolescente: troppo grande per giocar ancora agli indiani. Così non le resta che declinare su un nuovo rapporto senza troppe pretese – “Il mio quarto marito non era un marito: facevamo l’amore…” -: quello col prof. di matematica del figlio. E poi tutto precipita e finalmente lei, carica di tutti i retaggi delle relazioni passate – efficace l’immagine scenica di sovrapposizione di tutti gli accessori delle quattro relazioni -, si scopre innamorata solo di quel figlio che – “…come un presagio di caduta”, questa una delle fantasie allarmiste a proposito del figlio bambino – non riesce mai ad avere: è sempre troppo presto o troppo tardi. “Mio figlio dorme tranquillo nel lettino. Una notte senza incubi, come sempre. Un bambino sereno: ha quasi due anni, si chiama Mirko”, chiosa, in fase di regressione compulsiva post traumatica. Niente e nessuno, in fondo, le sono mai appartenuti; né, lei, è mai davvero appartenuta a nessuno: ecco perché si nasconde in questa tana. Ecco perché si lusinga: “Forse sono ancora in tempo…”: ma, intanto, la luce si spegne – anularmente – su di lei: a soffocarne l’afflato.