Mauro Monni e il suo Feltrinelli “di piombo”
Non è una scelta semplice decidere di raccontare una storia come quella di Giangiacomo Feltrinelli. Non è semplice, perché significa non soltanto ricostruirne la biografia, ma andare ad affondare a piene mani nella storia e nella politica contemporanee. Tutto troppo vicino, forse, per poter essere guardate con occhio lucido.
Eppure è proprio quel che fa Mauro Monni nel suo monologo “Feltrinelli, una storia contro”, in scena, in data unica, al Teatro del Vigentino di Milano, il 10 dicembre 2019.
Una questione di tagli e di taglio.
Un amore così lungo tu non darglielo in fretta. L’allusione, all’appassionata e fulminante vicenda umana di Feltrinelli, prematuramente scomparso a soli quarantasei anni, è da quel De André certo di non lontana temperie, specie nell’album Storie di un impiegato.
Ed è esattamente questo, quel che Mauro Monni fa, nel’atto unico di quasi un’ora e mezza: si prende il suo tempo. Anzitutto si prende il tempo per presentarci gli antefatti: il padre Carlo, ricchissimo, influente e prematuramente scomparso e la madre Giannalisa, ugualmente ricca e conservatrice, con in più l’aggravante di essere donna algida e distante, che ne affida le cure all’affetto della servitù.
È in queste frequentazioni della sua infanzia, che va a mostrare l’emergere di quella coscienza politica, sociale e partigiana, che difficilmente si sarebbe potuta immaginare nel rampollo di una delle più influenti famiglie della borghesia industriale e finanziaria milanesi.
Né mancano le stoccate aneddotiche ai danni la madre.
Ma quel che importa di più è il forgiarsi della sua coscienza e passione politica e civile.
Ancora un’altra carrellata – lunghissima, stavolta e, soprattutto, densissima. Delle svariate vicende e dei moltissimi fronti, su cui si è giocata quell’esistenza quasi moltiplicata e strombata, Mauro Monni mette a fuoco le vicende salienti: la leva volontaria nel Corpo di combattimento Legnano, l’impegno nella battaglia referendaria pro Repubblica, la posizione critica nei confronti del Partito Comunista; e poi ancora la fondazione della casa editrice e il caso Pasternak, l’amicizia con Fidel Castro e la non meno intricata questione della pubblicazione de “Il tropico del Cancro” di Hanry Miller, censura annessa; l’arresto in Bolivia e poi le Battaglie Politiche, il ’68 e la Rivoluzione Studentesca; la latitanza dall’Italia, la strage di Piazza Fontana, i Gap (Gruppi d’Azione Partigiana) e a quell’azione – dimostrativa, dicono -, che gli fu fatale.
Gli episodi sono usati come lenti d’ingrandimento sulle vicende della recente cronaca politica nazionale e internazionale.
Il rischio, come ogni volta che si zoomma, è però di perdere, a tratti, la messa fuoco. Così, nell’intricatissime vicende che pure Monni sciorina con la sicurezza di chi può vantare di essere alla duecentosettesima replica, i fatti forse si mescolano con le congetture politiche e la cronaca, chissà, si colora di complottismo e dietrologia. O forse no. Di certo, l’enorme massa d’ informazioni, pur snocciolate con garbo e scioltezza – senza i picchi istrionici dell’oratore, né gli accenti concitati dell’ideologo o del sobillatore -, non è di facile gestione. Per tutti quelli che non c’erano, si tratta di maneggiare una mole d’informazioni, ciascuna delle quali in grado di squarciare pagine di una storia recentissima spesso più favoleggiata che realmente conosciuta; per chi c’era, di un vademecum, con cui ordinare i propri ricordi. Se ne rende ben conto, Monni, che sembra quasi mettere le mani avanti, scusando l’eventuale retorica con l’apologia della memoria.
In scena il tutto è reso col supporto di immagini d’epoca in bianco e nero, di veline dei dispacci dalle stragi gettate sul pubblico e di colonne sonore ipernote ed iperemozionali. Già, e, così, chi non concorderebbe con la storia raccontata? Chi non si unirebbe a quel garbato swing, che ci svela gregge irretito di fronte ai mezzucci di una televisione allora neonata, ma già abile nei trucchi diversivi? Chi potrebbe mai resistere a quel suadente Hamelin, che si auto dichiara teatro civile?
C’è un tempo per la cronaca e c’è un tempo per la storia.
E c’è un tempo in cui stagioni tanto prossime, dense e di difficile decodificazione forse bisognerebbe metterle a maggese e lasciarle riposare.
Così, pur nel lodevole intento di rispolverare una parte così calda, dolorosa e vicinissima della storia contemporanea – che è un po’ il senso del fare teatro politico, ecumenico e comunitario -, raccontare la passione civile e politica dell’uomo Giangiacomo rischia di perdersi in un’apologia senza possibilità d’appello. E sembra accorgersene lo stesso autore, che sbrigativamente sfuma, verso la fine, di fronte alle tantissime incongruenze e ai moltissimi dubbi, che una vicenda su cui forse non si è ancora fatta luce del tutto, lasciano.