Teatro, potere e cannibalismo: “EAT ME”
C’è uno spazio, a Milano, dal significativo nome di Fabbrica dell’Esperienza. Pur circoscritto nel novero dei cosiddetti spazi off, raccoglie, testimonia e tiene viva l’esperienza della Comuna Baires di Renzo Casali, grazie alla direzione artistica della figlia Irina – attrice, regista e drammaturga, laureata in filosofia teoretica oltre che cresciuta come parte attiva nell’esperienza in Sud America.
Un luogo di ricerca, formazione e creazione artistica
In accordo all’ormai diffuso uso di riconvertire strutture dismesse – ma, qui, anche con un intento programmatico, stante quel nome di Fabbrica –, lo spazio si presenta come un padiglione arioso e accogliente. Finemente ristrutturato, è arricchito da librerie e arredi forse un po’ retrò, ma che fanno subito casa.
È qui che convergono i gruppi di ricerca Comuna Baires, Fare Anima e Salti Teatrali. Oltre a questi, la casa editrice indipendente Editori della Peste (premio Microeditoria di qualità 2016 ) e il laboratorio permanente di scrittura Circolo Pickwick. Fiore all’occhiello, in fine, è la scuola professionale per Attori di Teatro e Cinema Acting Languages Academy: la prima in Italia per l’insegnamento della Meisner Technique, sottolineano.
È qui che, nelle due sole repliche di venerdì 13 e sabato 14 dicembre 2019, è andato in scena “Eat me – il coraggio di essere nessuno”. Scritto e diretto da Alessandro Zatta di Salti Teatrali e co fondatore con la Casali di FE – in spagnolo: fede, fiducia, speranza -, porta sul palco con sé ex allievi formatisi alla Acting Languages Academy, fra le altre esperienze pedagogiche.
Il primo capitolo di una trilogia
In accordo alla cifra della Comuna Baires, l’intento qui è presentare e non rappresentare. Non è il teatro borghese quel che interessa. Piuttosto, si vuole parlare della società e alla società, inscenando se stessi. Ed ecco che, individuato nel potere il primo grande leviatano, Alessandro Zatta e Irina Casali immaginano una trilogia, a partire da ciò che è più vicino a loro.
Una lucida parodia dei meccanismi di potere
Così “Eat me – il coraggio di essere nessuno” racconta della smania di salire su un palcoscenico quale atto di rivalsa e di redenzione delle proprie frustrazioni personali. Di più: dice di tutto quanto si è disposti a sopportare da chi nutra le nostre velleitarie ambizioni e, reciprocamente, come queste foraggino il frustrato cannibalismo di chi se ne ciba.
E se, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca – come si dice -, ecco sfilare sul palco uno stillicidio di luoghi tanto comuni, quanto reali. C’è il maltrattante e manipolatore regista/ideatore del progetto qui interpretato da un Alessandro Zatta dal piglio alla Vittorio Sgarbi. A tal punto si crede in diritto di condizionare l’esistenza dell’aspirante attore, da pensare di avere il diritto di decidere perfino sulla sua vita affettiva. C’è la stagista/Kseniya Podavalenko, che dovrebbe occuparsi di produzione e organizzazione e che invece, come capita, finisce per far di tutto. Lla speranza è che il periodo di prova possa essere coronato da un lavoro non retribuito. Ci sono i tecnici/Danilo De Giorgio e Adriano Pavani – la cosiddetta manovalanza – con le loro ambizioni artistiche malamente celate. Emblematica è la scena in cui Danilo De Giorgio, in preda alla preoccupazione per il figlioletto malato, si ritaglia il tempo per lasciarsi andare all’ultimo monologo di Macbeth. Anche loro sono disposti ad accettare un trattamento meschino, non soltanto a livello remunerativo. E poi c’è lui, l’aspirante attore, – Marco Fagnani -, mangiato vivo dal terrore di essere il signor nessuno, che a sua volta si fa cibo – come le caramelle gommose, che il regista non smette di divorare rabbiosamente.
Ma perché lo fanno?
Non si può stare a guardare tutto questo senza chiederselo: specie nel momento in cui il regista azzanna la prima caramella gommosa. È lì che ci rendiamo conto che è la stessa che ci è stata offerta nel foyer – e che forse abbiamo anche accettato e ingurgitato con gioia, nonostante quella sinistra forma di osso, forse pensando alla giocosità bambina della recente festa di Halloween.
Riecheggia quel per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti. E se non è con il regista – tratteggiato in modo troppo caricaturale perché questo possa accadere -, che avviene il transfert, quanto più facilmente ci riconosciamo in quel piuttosto di non far la fine di mia madre? Il riferimento, nella drammaturgia, è alla madre della stagista, di professione estetista e di cui dice che ha passato una vita a occuparsi dei peli degli altri. Quanto, ancora, ci rivediamo nel desiderio dell’attore di mostrare al padre imbianchino che la vita non si esaurisce nel tinteggiare un muro? E quel mettere bianco sul altro bianco è forse il modo più plateale per farcene tastare la vanità.
Un’azzeccata messa a fuoco dell’ormai sempre più diffuso bisogno sociale di apparire.
Si parla moltissimo del crescente esibizionismo e, sempre più spesso, se ne dà la colpa ai social.
È interessante vedere come invece qui sembri più avere a che fare con ferite narcisistiche, spesso innescate da rapporti familiari disfunzionali. Simili mostri del pensiero sembrano originati da un’educazione sminuente e repressiva: quasi che, dominati dall’idea che la vita debba essere accettazione e sacrificio, non si possa poi che trovar sfogo nell’esplosione, dalla coloritura quasi anche sessuale, ad esempio dell’evento calcistico vissuto come occasione sdoganante degli istinti animali compressi.
Ed è qui che affiora quella Wille zu Macht – la nietzscheana Volontà di Potenza – con la quale gioca chi voglia di fatto acquisire il massimo potere su di noi. Non fu, del resto, questa, anche una delle lusinghe con le quali Satana tentò Cristo nel deserto?
La vocazione teatrale è un’altra cosa.
Dall’ Agisci e non pensare, l’attore è azione, alla camminata come primo approccio con lo spazio e con la consapevolezza di sé, fino a mimare l’azione animale – proprio perché l’animale non pensa, ergo è massima espressione dell’azione. Così, dopo aver navigato – e agito – fra i luoghi comuni di chi il teatro lo fa, la conclusione sembra essere col John Lennon di Imagine che un altro modo deve essere possibile. Per fortuna, l’approdo va oltre a una così semplicistica e forse un po’ retorica conclusione, fino alla scoprire, come spesso capita, che la vera via non è nell’altrove, bensì nella consapevole e responsabile scelta dell’hic et nuunc. Unica pecca, forse, è l’arrivare a questa conclusione per il fallimento del sogno. Se non fosse stato interrotto così brutalmente, probabilmente li avrebbe divorati senza pietà. Nessuna satira, quindi, del meccanismo teatrale tout court, quanto, di quel fare teatro che non abbia sufficientemente chiare a sé le ragioni della propria scelta vocazionale.