Shakespea Re, Napoli e la potente bellezza del teatro
Quando uno spettacolo funziona, te ne accorgi subito. Lo rivelano la drammaturgia, la musicalità, il ritmo, la recitazione, l’interpretazione, la regia – non di meno luci e costumi – e quella particolarissima alchimia, che ne è la risultante e non semplicemente la somma.
Esattamente questo succede in “Shakespea Re di Napoli”, scritto e diretto da Ruggero Cappuccio, in scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 19 gennaio 2020.
Un naufragio, che dice già della shakespeariana “Tempesta”
La vicenda racconta di un naufrago, il cui nome, Desiderio, rimanda subito all’idealità di quel wish, che in inglese si colora delle sfumature dell’augurio. Lungi dall’alludere alla brama o al desiderio carnale, fin da subito ci pone invece sul piano della bellezza, dell’arte e del Teatro: con l’iniziale maiuscola. Così ci appare il protagonista. Ci si mostra qual novello Ulisse sbattuto dal mare su una qualche isola dei Feaci, a balbettare parole in un idioma sconosciuto. Così suona l’inglese dei sonetti shakespeariani, che, ancora mezzo stordito dall’urto della tempesta, il protagonista biascica in uno stato di semi incoscienza. Ma non meno straniera – nel senso di ostica, almeno per chi non ne sia madrelingua – si rivelerà, poi, la parlata partenopea. Una sinteticità, musicalità, vivacità, capacità evocativa ed efficacia che nulla hanno da invidiare alla lingua del Bardo, che Desiderio si rigira sulla lingua con tutta la voluttà di chi ne assapori la squisitezza.
Contraltare di Desiderio è Zoroastro, il ritrovato vecchio compare di furfanterie. Musico, guitto, alchimista, a seconda delle occorrenze, incarna quell’arte dell’arrangiarsi, che, se appartiene in genere al popolino, quello napoletano sembra detenerla con ancor maggior specificità. Solo a Napoli può darsi che un alchimista in realtà sia solo un imbroglione o, peggio, che in tale sia stato costretto a trasformarsi a seguito della desolata constatazione che la gente vuol essere raggirata. Solo qui aleggia quello spirito magico fatto di pozioni e superstizioni, di verità, sofisticazioni e mistificazioni, maschere e commedie credute vere e non credute, invece, quando vere lo sono. “Teatro…”, sentenzierebbe lo scettico; eppure il teatro è anche il luogo dell’a-létheia e cioè verità in quanto dis-velamento e quindi rivelazione.
C’è tutta la napoletanità delle illustri penne partenopee nella scrittura di Cappuccio.
Una lingua che è più del semplice dialetto: questo, spesso, è convinzione di chi scrive in napoletano. Da Eduardo a Ruccello – e, avanti, fino a Mimmo Borrelli -, Napoli sembra trasformarsi in una zona franca dotata di lingua e cultura proprie. Non si tratta infatti solo di suoni autoctoni. Napoli è metafora della coincidentia oppositorum, in cui – come a teatro – tutto è possibile.
C’è tutta la napoletanità delle maschere mutuate dal popolo nell’interpretazione potente.
Se il racconto è magico e surreale come quelli di un Basile in salsa fantastico-shakespeariana, quel che dà corpo e sostanza – e veridicità – alla narrazione sono appunto i corpi degli attori.
Non avrebbe potuto essere altrimenti, in una cultura così ancestralmente barocca e legata alla visceralità, da costruire per antitesi, iperboli e trivialità, pur senza dimenticare la poesia spicciola, che pur si cela nelle piccole cose. Così stupisce e affascina la potenza attorale di Claudio Di Palma/Desiderio, il suo piglio, la presenza scenica e la vivace versatilità. Lui è il bello, l’astuto, colui che ha viaggiato, incontrato altre culture e che sa, pur senza ostentare, né rinnegare nulla delle sue origini. Lui è il figlio abbandonato alla nascita e salvato da quello che forse allora non era nulla più che uno scugnizzo: eppure alla prima occasione non ci ha pensato un solo istante, prima di lasciarlo. Non di minor pregio è la prova d’attore di Ciro Damiano, l’anti-eroe Zoroastro. È il Sancho Panza della situazione: il Pappagone. Come tutte le figure di servizio, non solo fa brillare colui che gli sta accanto, ma ci regala squarci più intimamente a misura d’uomo, nella sua pur prosaica liricità.
Collaudati da una circuitazione dello spettacolo di oltre venticinque anni, entrambi gli attori sciorinano e controllano alla perfezione gesti ora plateali ora quasi impercettibili con un affiatamento, una complicità e un’alchimia, a cui capita di assistere raramente. E se i movimenti si amplificano quando l’espressività facciale è nascosta dalla maschera, la mimica, che fa di ciascuno di loro una maschera nuda, ce li restituisce nella minuta e preziosa umanità verace, che passa appunto attraverso le illusioni e le idiosincrasie, le delusioni e il bisogno di crederci, che ci rendono umani.