“Alive!”, la muta forza di una perfomance di Dummies
Capita spesso, a Milano, di imbattersi in spazi teatrali decisamente non convenzionali, ma in cui ti trovi ad assistere a spettacoli sorprendenti. È questo il caso di “Alive!”dei Dummies Project, visto, in data unica, domenica 12 gennaio 2020, a LabArca di Anna Bonel. Nascosta in una traversa di quel Corso Genova, che allunga via Torino dal Duomo fino ai Navigli, già la location è inusuale: un teatro, a cui si accede attraversando un raffinato laboratorio artigianale di bigiotteria e monili.
Che siamo in una discarica, ce lo racconta, pleonasticamente, il video introduttivo
Catturati dall’effetto in presa diretta e in bianco e nero di un filmino volutamente amatoriale e d’antan, l’inquietante occhio della telecamera ci porta all’interno di un magazzino abbandonato. Sembra un reportage clandestino. Furtivo, il cameramen si muove in quei locali ingombri di manichini rotti e altri oggetti difettati e per ciò scartati.
Di qui alla discarica il tragitto è breve – e reso ancor più sinistro dall’attraversamento di una galleria stradale, al cui fondo non può esserci che… qualcosa di terribile!
In fondo al tunnel, invece, c’è solo il mondo raccontato da questa performance teatrale con i suoi personaggi finalmente – e paradossalmente – reali e le sue tinte ben più rassicuranti.
Un salto dimensionale
I corpi dei performer sono sormontati da maschere integrali sproporzionate, così da accentuare l’effetto disney anche nei personaggi dalla denotazione anagrafica schiettamente agé.
È così che questi moderni lirici pinocchi vengono chiamati alla tridimensionalità proprio da quel pericolo chimico dichiarato, dall’unico tocco di colore della pellicola: il verde fluorescente di misteriosi miasmi, foriero di chissà quali mutazioni transgeniche.
Ed eccoli finalmente alive! Ad accompagnare il risveglio di questi dummies – in inglese, il termine significa sia manichino che tonto, ingenuo, naïf… -, un tema musicale ripetuto e fatto di xilofoni e campane ci intrattiene per tutto il tempo di questa minuziosa metamorfosi. È quasi una filastrocca per bambini e ci trasporta dall’inquietudine iniziale all’incanto di quello che in fondo potrebbe essere un parco giochi.
Che non tutto il male venga per nuocere? Una boccata di positività contro il catastrofismo non guasta.
Contro il realismo del nihil est in intecìllectu quod non fuerit in sensu, infatti, il Sogno Americano aveva invertito la rotta. Ha costruito un impero al suon di: “Se puoi sognarlo, puoi farlo!” E lo conosciamo bene tutti il potere, non solo consolatorio, ma spesso anche motivante, dei sogni.
Così qui, in un curioso ribaltamento su più livelli, concretamente si muovono e agiscono questi deliziosi strampalati manichini. Già, perché, nonostante gli improbabili e coloratissimi costumi surreali – fatti con materiali ricondizionati, in linea con la loro poetica – e le bizzarre maschere – larvali, per lo più, e dalle buffe e cascanti chiome di guanti in lattice, il cui pallore acutizza l’effetto lunare dei volti di cartapesta -, la loro realtà è innegabile. Hanno la fisicità di quel Lecoq, alla cui scuola si è formato l’autore e regista Federico Bertozzi: movimenti dalla lentezza, precisione, espressività e tonicità mimica, capaci di amplificare ed esaltare l’espressività dei volti pur cristallizzati nell’immutabilità dell’unica emozione fissata nelle maschere integrali.
Narr-azione muta
Come bambini catapultati in uno spazio nuovo, con la stessa trepidante impazienza si lanciano sulle cose: senza pre-giudizio alcuno. Ora a gruppetti, ora singolarmente, sono mossi solo dalla loro irrefrenabile curiosità, dalla frenesia di toccare e sperimentare tutto e dall’incondizionato bisogno di conoscere, manipolare, capire. Ma bambini non solo: tipi, piuttosto. Ciascuno con una propria cifra, sembrano prendere il sopravvento sul performer. S’impossessano del suo corpo, per poter invece esprimere la propria personalità – com’è capitato di vedere anche in eventi extra teatrali come la performance alla Galleria degli Uffizi.
Deliziosa la figurina femminile, che, muta, cinguetta sull’altalena. Un po’ bimbetta leziosa, un po’ damina ingenua, si ritira, poi, a fondo palco: timida, si protegge dietro a un delicato ombrellino di pizzo – da cui non smette di sbirciare maliziosamente…
Manipolazione e sollecitazione sensoriale
Sospesi, come ciascuno di noi, fra paura e desiderio, questi personaggi bambini hanno una doppia natura.
Ecco l’attore drammatico. Anche lui senza parole, gigionescamente si strugge nel monologo di Amleto. Lo fa interagendo con una melanzana, che, nella sua foga sperimentatrice, ha lui stesso intagliata a teschio col coltello, che gli era servito per sconfiggere un gordiano groviglio di… striscianti fagiolini?!
E l’odore dei cartoni – poeticamente sospesi, contro ogni gravità, come in un quadro surreale -, si mischia a quello delle verdure sminuzzate, fornendo un ulteriore attaccamento sensoriale al locus della narrazione.
Eppure i messaggi arrivano forti e chiari
A dimostrazione che non si tratta di uno spettacolo for dummies, non lesina impietose mimiche d’invettiva sul delirio di protagonismo, che può far di un attore un potenziale Führer.
E poi c’è l’anziano. I toni e gli umori sono un po’ quelli del classico vecchietto burbero di tanti cartoon; eppure quanta verità c’è nell’apparentemente stereotipato cliché della fatica nell’infilarsi le pantofole o nella struggente nostalgia per la donna un tempo amata e perduta chissà quanti anni prima? La sala sorride, la sala sospira – e questo conferma che il colpo è andato a segno.
Suo contraltare un bambino. Nonostante sia molto piccolo – almeno: così parrebbe, a giudicare dal suo arguto nome di No, che dice di una ben precisa età evolutiva –, anche lui è finito in discarica in quanto non conforme. Lo si evince dall’innumerevole quantità di scontati e, questi sì, stereotipati luoghi comuni, sciorinati fuori campo, nell’esilarante battibecco dal gustoso accento pugliese, fra le due psicologhe infantili .
Le (forse) sottovalutate potenzialità della performance di figura
Già: ma cosa fanno, gli altri tipi, mentre ciascuno, a turno, è protagonista del suoi teorici 15 minuti di celebrità, per dirla alla Andy Wharol? È straniante. Semplicemente, se ne stanno lì, seduti, nella penombra, a centro palco.
Muti, freezati in una ossimorica posa da souffleur – “Un muto che dice a un sordo…”, recitava una famosa storiella –, è la loro fissità scultorea ad amplificare l’assurdità, che travalica dallo spazio scenico, invadendo la platea.
Ecco da dove trae la sua forza dirompente, il pur prosaico e anti eccezionale elemento di realtà, che anonimo irrompere con tutta la sua normalità a spezzare l’incantesimo. E il ritorno all’hic et nunc ci scopre incerti su quale sia il vero mondo.