La “Giulietta” di Fellini, fragile fortissima falena in Malosti

Fra le chicche, con cui il Teatro Franco Parenti prova a ripartire – come recita il sottotitolo della stagione estiva dal significativo sprone Ricominciamo insieme. Passaparola! -, dal 13 al 15 luglio 2020, Giulietta, lo storico spettacolo di Valter Malosti. Interpretato, qui, dalla versatile Roberta Caronia, è andato in scena in una Sala Grande, in cui il distanziamento imposto dalle misure di sicurezza anti Covid è stato volto nell’accogliente suggestione di panchette distanziatrici, impreziosite da delicatissimi libri luminosi. Il pubblico stesso è stato poi responsabilizzato e coinvolto nel rito dello spegnimento. Ci è stato chiesto un gesto cauto ed evocativo, come si faceva, a stelle alte, nelle notti bambine, chiudendo gli occhi alle fiabesche pagine e dischiudendo le braccia ai sogni.

L'immagine può contenere: una o più persone e persone sul palco

L’occasione prossima per addentrarsi, in punta di piedi, in quest’immaginario onirico (spiritico e parapsicologico), è stata offerta dal centenario dei natali di Federico Fellini – nato a Rimini, il 20 gennaio di un secolo fa. E se risale al 2004, la prima messa in scena di questa trasposizione teatrale (ad opera di Vitaliano Trevisan) del trattamento, da cui Fellini avrebbe poi elaborato la sceneggiatura del film Giulietta degli Spiriti, questi tre lustri, lungi dal togliere vigore, hanno invece probabilmente regalato fluidità, fruibilità e costrutto ai quasi ottanta minuti di un monologo serrato, ritmato, coinvolgente, rigoroso, poetico, terribile – nei suoi picchi in cui, all’acme, il pathos, poi, spesso si scioglie in… celia – e con quelle nuance di surreale poesia, che ci parlano proprio di lei, la Giulietta dagli occhi grandi di candore e meraviglia, nonostante tutto, che abbiamo visto in quelli di Gelsomina nel film La strada, con Antony Queen, ad esempio.

Ma a teatro è un’altra cosa. La scena è dominata da quella che potremo definire una donna-falena per quel suo essere infilzata al centro, come una farfalla notturna, che ancora si dibatte, nonostante la sua evidente condizione di impossibilità a spiccare il volo. La scenografia – autoparlante – ci dice del circol’immensa gonna inchiodata a terra e trapassata da tiranti obliqui a riproporre l’evocatività della pista, in cui si esibiscono clown e giocolieri –, ma, immediatamente, ci folgora anche la sinestesia della Winnie di Giorni Felici con quel suo essere fatalmente sepolta, nonostante tutto – e, nonostante tutto, rievocare e rimpiangere quei giorni, felici forse solo nell’aurea edulcorata del ricordo o dell’illusione di quel che avrebbe potuto essere.

E lei è proprio la Gelsomina de La strada: trucco da mimo, cuffia e corpetto quasi a volerne azzerare, minimizzandole, le forme, mentre con voce e coscienza rimaste bambine, nonostante tutto, racconta della sua vita. È un flusso continuo, ma sapientemente acceso o smorzato dal sopraggiungere dei ricordi, resi tangibili dall’importante drammaturgia di luci, paesaggi sonori e climax emotivi. Suggestiva, l’abilità evocativa della Caronia e la capacità di modularle la parola (ben scritta e efficace nel restituirci lo ZietGeist) con una maestria e padronanza tali, da non farcene quasi accorgere (tanto si fonde, pur senza mai perderne le redini, col suo personaggio). Tutt’attorno, gli spiriti-guida delle presenze ultramondane acquisiscono la disarmante consistenza lignea delle marionette (fornite dall’Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare), con cui evidentemente interagisce nei suggestivi dialoghi di luce, che in altri momenti popolano, in un teatro d’ombre dei suoi incubi, la grande gonna/pista circense, facendone palcoscenico ora di orde di Mongoli feroci, sbarcati sulla spiaggia con le loro cavalcature senza sella, ora di chi sta scavando una galleria sotto casa sua, costringendola al gesto estremo della… fuga in mongolfiera?!

Tutto sa della surreale prouderie di quegli anni (secondo decennio della metà del ‘900). La psicologia e la parapsicologia, la ricerca identitaria delle donne (prima ancora della rivendicazione vera e propria) eppure quel loro ancora sentirsi infondo bambine e bisognose dell’affetto e della protezione dei loro mariti/padri/mentori (ai cui dettami, però, cominciavano a non essere sempre così disposte a soggiacere), iniziavano già a dare un nuovo colore a quel mondo granitico, che poi si sarebbe sciolto nell’altrettanto surreale liquidità contemporanea.

Presente e passato si confondono, realtà e sogno – e incubo e presenze ultramondane – scolorano, in questa rigorosa partitura autobiografica. Un viaggio iniziatico, che comincia con gli occhi di una bimba, che, timidi, si affacciano nello specchio, in cui stentava a riconoscersi, per poi forse terminare con una finalmente accettazione di sé – al di là della sua avvenenza fisica, in una conquista di quell’autentica bellezza, che è data dall’amore capace di spezzare le catene della convenzione sociale.

Quindi non solo uno spettacolo bello, questa Giulietta di Malosti; ma uno spettacolo ben fatto, capace di offrire poesia e meraviglia e sogno, sì, ma anche emozione, commozione composta e, a noi donne in più, forse anche il rispecchiamento di una generazione apparentemente fragile, ma la cui forza è stata quella di aver saputo traghettare, attraverso il sogno, verso il riconoscimento e la realizzazione del sogno di una reale e più compiuta e consapevole determinazione e reciprocità di genere.