“Terra Matta” di Lisma/Gurrado ovvero la r_esistenza di Lucignolo
La cosa belle delle storie è che ciascuno può narrarle a modo proprio. Non importa se la trama è la stessa e se perfino le parole sono identiche: anche in questo caso, una storia si tinge di striature del tutto peculiari a seconda di chi ce la racconti.
Questo è quel che capita anche a “Terra Matta”, trasposizione diaristica dell’autobiografia di Vincenzo Rabito, da anni splendidamente portata in scena in forma monologante da Stefano Panzeri e che invece, dal 15 al 18 ottobre 2020, ha inaugurato la stagione del Teatro Fontana di Milano nella versione reading con accompagnamento musicale ad opera del duo Rosario Lisma e Gipo Gurrado.
Intanto un po’ di storia
Secondogenito di una nidiata di figli rimasti in carico alla madre vedova, Vincenzo Rabito, autore, protagonista e voce narrante di “Terra Matta”, è uno di quei ragazzi del ’99 chiamati alle armi durante il primo conflitto mondiale, nonostante la giovanissima età. Rabito, poi, è un caruso della provincia di Ragusa, analfabeta per condizioni economiche e sociali, che lo videro costretto a lavorare fin da molto piccolo per aiutare la madre a sfamare la copiosa prole.
Rabito, però, è anche un vivace narratore, che, acquistata a poco a poco la capacità di leggere e scrivere da autodidatta, a un certo punto della sua esistenza sente l’esigenza di trasporre le sue vicende su carta.
Così, nel 1968 si arma di una macchina da scrivere Olivetti e le riversa in pagine fittissime di parole strappate al dialetto parlato e fissate in forme più spesso solo assonanti con quelle della lingua italiana, separandole soltanto con punti e virgola. Quel che ne vien fuori è un singolare flusso di coscienza, spiazzante per la sua vivida originalità, che ce lo racconta fino al 1981, pochi giorni prima della sua dipartita.
Una storia senz’altro affascinante
Una storia senz’altro affascinante, già, per quella capacità affabulatoria, che spesso pervade certi racconti popolari, al punto da stregare due artisti dal temperamento decisamente differente. Stefano Panzeri ne ha ricavato quattro monologhi, che da anni porta in giro per l’intero globo, facendone preziosa occasione d’incontro e di memoria, di autocoscienza, identità culturale e testimonianza con le comunità di italiani all’estero e con gli stessi discendenti del Rabito. Rosario Lisma, complice la chitarra e il tappeto sonoro di Gipo Gurrado, sta iniziando a proporne una lettura scenica di non minor vivacità, che avvince il pubblico acchiappandolo da un’altra parte…
Se il Panzeri interpreta un Rabito dalla vivacità commovente, candida e disarmante (il riferimento, per ambo gli attori, qui è il primo capitolo, quello che racconta le vicende fino alla conclusione della Prima Guerra Mondiale), Lisma, al contrario, sembra prediligere l’anima lucignola del ragazzo del ’99. Così, accanto agli stessi episodi dall’emozionalità forse un po’ d’antan interpretati da Panzeri, Lisma spesso scodella anche i facili entusiasmi e gli altrettanto fulminei orgogli, le arguzie e le pragmaticissime lezioni di vita vissuta portatesi a casa dal giovinetto costretto a crescere anzitempo.
I fatti di guerra, invece, sono gli stessi: identici lo spaesamento e la rivolta per una chiamata alle armi, che non avrebbe certo dovuto coinvolgerlo, il terrore e lo sgomento della trincea, i ritratti a tinte forti di superiori e compagni di reggimento, la nostalgia e preoccupazione per gli affetti lontani e ignari di quel che capitava al fronte, l’esaltazione per la vittoria e la ricorrente constatazione della miseria, fame, precarietà e spesso inumanità di condizioni al limite del tollerabile anche a fronte della vittoria finale.
Due Rabito
Identiche le parole – rispettivamente dette e lette dai due interpreti –, che pure lasciano affiorare due versioni del Rabito non perfettamente sovrapponibili; così capita, a volte, quando il cunto sia imbastito per interlocutori differenti o, appunto, quando sia cuntato da persone diverse.
Il Rabito di Lisma
Che il guizzo di Lisma fosse quello dell’ironia e dell’umorismo, della satira e della boutade, lo sapevano già bene tutti quelli che ne abbiano conosciute le performances non solo teatrali. Rosario Lisma, infatti, è volto anche cinematografico e televisivo – visto ne “La mafia uccide solo d’estate”, ad esempio, o nelle strisce satiriche del talk politico “Ultima parola” di qualche anno fa –, oltre che autore ed interprete di commedie teatrali quali “Che gusti ci sono”, “L’operazione” o “Peperoni difficili”. Qui, però, l’attore siciliano sembra davvero riappropriarsi di quella sagacia e di quell’ironia tutte sicule, che accendono il viaggio iniziatico del suo giovane Rabito. Complice anche il drammaturgicamente ben calibrato costante dialogo sonoro col musicista e compagno di palco Gipo Gurrado ed una cromia di luci capaci di valorizzare i quadri narrativi senza sovraccaricare il quasi verismo della narrazione, qui Lisma si destreggia senza sforzo apparente fra arguzie – preparate ad arte con tempi e ritmi esatti per poter andare a segno con agile stoccata! – e canzoni mutuate dalla tradizione popolare dell’Isola e capaci di riportarci, in un sol giro di do, in quei colori, sapori, paesaggi, ricordi e pensieri dalle intonature autentiche e popolari. E lo spontaneo scroscio di applausi a scena aperta a restituire, ad ogni canzone intonata, il contrappeso dell’emozione provata, credo ne sia stata la più schietta riprova.
Canto e cunto, cunto e canto/per non perdere lu cunto
Ecco, questo il reportage teatrale di una domenica pomeriggio, in un periodo complesso e difficile quanto solo quest’epoca segnata dal covid poteva mostrarci. Perfino in una Milano, che fino a poco tempo fa era considerata capitale dello spettacolo dal vivo, si ha quasi paura di ritornare nelle sale, nonostante tutte le misure cautelative e di distanziamento interpersonale giustamente imposte dalla rigida normativa. Ha ironizzato anche su questo, Lisma, facendo capolino dal sipario appena prima che la maratona avesse inizio… con quel piglio e quello sguardo malandrino a tratti poi prestato al suo personaggio. Così, mentre nel cinquecentesco adiacente chiostro della Basilica bramantesca di Santa Maria alla Fontana si svolgeva l’ultimo episodio di Milano Clown Festival, anche in sala i pochi, ma irriducibili consumavano un laico rito di r_esistenza: quello della testimonianza e della condivisione della parola, nella convinzione che non di solo pane vive l’uomo – né della sola autosalvazione dell’integrità fisica. E chissà che nutrire lo spirito e superare gli individualismi – cavandosi fuori, pur con tutta la prudenza del caso, dalla propria safety zone – non restino le sole strategie per poter scongiurare i risvolti socio-economici e culturali di una pandemia altrimenti difficilmente scongiurabili.