Babilonia Teatri: una dichiarazione d’amore al Teatro, la loro “Romeo e Giulietta”
Mentre i teatri assistono a questa seconda forzata serrata, di nuovo imposta, dallo scorso 25 ottobre, a causa delle misure per il contenimento del Coronavirus, il 6 febbraio 2021 Rai 5 ha inaugurato un’altra rassegna di spettacoli da “divano”.
Pleonastico dire della frustrazione (e delle ripercussioni socio economiche) di chi, dopo il primo, durissimo, lock down di marzo, da altri oltre 100 giorni non può fare (o fruire di) teatro dal vivo. Ridondante ricordare come moltissime realtà, specie del teatro indipendente, non siano più riuscite a racimolare le risorse necessarie per riaprire, quando pure è stato concesso, a causa degli onerosi parametri di contingentazione (ergo diminuzione del pubblico pagante) e presidi igienico sanitari, che questa pandemia impone. Anche molti di quelli che ci sono riusciti, l’hanno fatto a costi enormi e certo non ripagati dalla minima finestra temporale concessa per le riaperture.
Comprensibile, pertanto, lo svilimento e l’astio, con cui alcuni guardano a tutte quelle iniziative “virtuali”, che paiono minare alle fondamenta la possibilità di una ripresa dello spettacolo dal vivo. Ma se fosse vero il contrario? Se proprio i tanto aborriti spettacoli “distribuiti” via streaming – sempre più frequentemente in modalità “on demand”, giustamente, a ripagare, ma, prima ancora, a riconoscere e legittimare una professione, che, in quanto tale, come ogni professione ha diritto a un compenso – fossero invece un modo per far sopravvivere – in questo tempo di “peste” -, il teatro? E se fosse, in fondo, addirittura un modo per rilanciarlo? Chissà che, quando tutto questo sarà passato, non lo si sia in tal modo accessibile pure a chi, per ragioni di dislocazione geografica, anagrafica o di ridotta mobilità, comunque non potrebbe fruirne dal vivo…
Rai5: un impegno continuativo a favore della divulgazione teatrale
Chi la segue, lo sa: da sempre Rai5 ha programmato spettacoli teatrali con cadenza settimanale, oltre a proporre rassegne pomeridiane quotidiane – noi di plateaLmente li abbiamo spesso rilanciati, sull’omonima pagina social, coniando l’hashtag #teatrosuldivano. Non si può dire, però, che la Rai sia stata la sola. :Specie da un anno a questa parte, lo hanno fatto in tanti, sia in tv che su canali privati, sia a condivisione gratuita che non.
Ora, pur al netto della certa diversa esperienza emozionale e partecipativa, dovuta al sovrascriversi della regia “televisiva”, oltre che alla mancanza della compresenza fisica dei corpi degli attori, ma anche degli spettatori, irrinunciabili, gli uni quanto gli altri, nel perpetrare quel rito laico (ludico o catartico che sia, ma comunque a suo modo politico), resta il fatto che questa pur per molti versi “dimidiata” esperienza è comunque un modo per mantenere viva la “sacra fiamma” – oltre che, forse, per inaspettatamente accenderla, in qualche annoiato zapper.
Non è, del resto, anche una telefonata, una maniera certo pratica, ma sicuramente non altrettanto pregnante, di gestire le umane relazioni? Ma a chi mai verrebbe in mente di rinunciarvi solo per uno scellerato senso di iper attaccamento a una modalità più tradizionale? E, a ben pensarci, idem dicesi dei libri (non sarebbe certo più appagante apprendere direttamente dalla viva voce di chi li ha scritti?), delle foto (sbiadite immagini bidimensionali di una realtà, che non si riesce mai a intrappolare del tutto) o di tutte quelle innovazioni tecnologiche, che, demonizzate sulle prime, alla lunga hanno saputo mostrare insospettabili potenzialità e punti di forza?
L’impensabilità di un futuro senza teatro dal vivo
“Il teatro resiste come un divino anacronismo.”, ha scritto quell’Orson Welles pur pioniere anche di ben altre forme di espressione e comunicazione artistica.
E, forse, proprio questo ci porta al punto cruciale. Chissà se quel fascino primigenio, che, alla lunga, comunque non smette di catturare, anche dai domestici schermi, coloro che il teatro l’abbiano vissuto sulla propria pelle – in presenza nelle sale – riesca ad ammaliare coloro, che, invece, non abbiano una simile esperienza da cui attingere. Ma poi in fondo forse è lo stesso che chiedersi perché alcuni vengano folgorati da questa passione ed altri no: perché solo ad alcuni batta il cuore all’impazzata nel vago istante in cui le luci in sala si abbassano…
David Lynch ha scritto: “Quanto è magico entrare in un teatro e vedere spegnersi le luci. Non so perché. C’è un silenzio profondo ed ecco che il sipario inizia ad aprirsi. Forse è rosso. Ed entri in un altro mondo…”
“Romeo e Giulietta – Una canzone d’amore”
“Il teatro è poesia che esce da un libro per farsi umana.”
(Federico Garcia Lorca)
Ecco, molte di queste considerazioni si condensano in “Romeo e Giulietta – Una canzone d’amore” di Babilonia Teatri, in scena Paola Gassman e Ugo Pagliai, regia televisiva di Alessandra De Sanctis, che il 6 febbraio 2021 ha dato il via alla nuova rassegna di sabati teatrali di di Rai5 (a seguire “Il canto dell’usignolo” con Glauco Mauri e Roberto Sturno, “Atti unici” di Cechov per la regia di Damiano Michieletto e “La scuole delle mogli”, regia di Arturo Cirillo).
Al di là del classico shakespeariano, raccontato in una convincente versione for dummies – convincente non solo perché riduce la vicenda e mette e fuoco il plot, ma anche perché esplicita le tematiche e le tensioni sottese, contestualizzando lo spirito del tempo nell’universale dell’umano sentire –, quel che trova spazio, in questo spettacolo dalla logica minimalista e destrutturante, è proprio la narrazione del senso e della bellezza del (fare) teatro.
Forse nell’intento di sostanziare teatro e vita, Enrico Castellani e Valeria Raimondi decidono di ribaltare l’usuale cliché dell’amore adolescenziale fra gli shakespeariani rampolli delle opposte casate veronesi. Così, scelgono come interpreti due attori maturi – sia per età che per carriera – e legati anche nella vita da oltre 50 anni. Attorno a loro, ritagliano le sole scene del dramma, che vedano Romeo e Giulietta quali protagonisti esclusivi, intervallandole con una sorta d’intervista a cuore aperto, in cui il regista Castellani, dal basso della deserta platea del romano teatro Quirino, si rivolge agli attori. Non è esattamente il pirandelliano gioco del meta teatro – e cioè recitare davvero quel che, fintamente, si vorrebbe far credere non orchestrato. L’intento pare piuttosto quello di far emergere i ricordi, il senso e le domande di una carriera e di una intera vita dedicata al teatro. Così a quei soli quattro giorni, in cui divampa, brucia e si consuma il tragico amore fra i due adolescenti – è la voce microfonata e intenzionalmente stereotipata della Raimondi a declamarci, a tratti, le shakespeariane didascalie, quasi istruzioni per l’uso, negli svincoli semantici cruciali –, costantemente fanno da contrappunto gli oltre cinquant’anni – cinquantatré, in più di un’occasione, timida, puntualizza la Gassman… – della loro vita privata e professionale condivisa. Alla freschezza e all’impeto della passione amorosa, la densità quieta, profonda e complice di una consuetudine, che si dipinge senza scossoni. Eppure commuove per la sua quasi impacciata delicatezza. L’interpretazione intensa e sorprendente – “Ugo, come si fa a interpretare un pezzo di questo tipo – sommessamente chiede, Castellani, al Pagliai reduce dalla scena in solitaria dell’accoltellamento di Tebaldo e Mercuzio – così, nel vuoto, nel nulla… senza arrivare da una scena precedente?” – è il controcanto della sobrietà nel raccontarsi, pur evocando gli spiriti e le presenze di giganti del teatro appartenuti alla propria famiglia e sentite e percepite, quasi, quali numi tutelari. E, il tutto, nel vuoto di un palcoscenico per la gran parte del tempo semi buio, acceso solo occasionalmente o acciecato da impietosi occhi di bue – ora a illuminare il personaggio, ora a indagare l’uomo. Nella sua ampiezza “per poco il cor non si spaura“, parafrasando Leopardi e ciò rende, in modo silente, ma non per questo meno efficace, una condizione di invincibile precarietà: quella degli amanti shakespeariani, sì, ma anche quella di ognuno di noi, homo viator in ma non di questo mondo.
Il senso del Teatro: desiderio e memoria condivise
Non è, dunque, soltanto il tramandare l’opera di uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi e profondo conoscitore dell’umana indole. E non è solo il farlo conoscere attraverso la maestria di attori affinati da lunghissimi anni di una severa e probante carriera. I ricordi iniziali dell’esperienza con Ronconi sembrano dare il senso di quella disponibilità totale – l’immagine è quella del lancio dei coltelli -, che i registi, spesso, e più spesso il Teatro, esigono da coloro, a cui legittimamente, a un certo punto, vien da chiedere se si sentano ancora parte creativa del processo o solo super marionette. E poi l’apparente contraddizione fra un recitare, che pare voler dire “non sul serio”, eppure quella spasmodica ricerca di verità, senza la quale il teatro si volgerebbe in burla. E, ancora, tutta quella componente ludico-eversiva impersonata nel fool, di cui dice Francesco Scimemi, a cavallo del suo struzzo da giostra dal sapore vagamente felliniano.
Ecco c’è tutto questo nel passaggio di testimonio fra generazioni (di teatranti), ma anche fra teatranti e pubblico, fra chi vive indossando i panni – talvolta scomodi, ma inabdicabili – di queste urgenze e di chi a queste domande si lascia docilmente ricondurre, ogni qual volta abbia riposto, in buon ordine, le mille divise dell’umano consenso. Ecco perché non fa scandalo – o, forse, lo fa: ed è proprio questo, in fondo, il valore aggiunto – la scena iniziale. Un’apertura di sipario pesante, paludato e lentissimo, mentre in sottofondo sfilano le note di “Moon River” (di Frank Sinatra, ndr) e i due attori paiono solo le ingessate comparse, a cui sia toccato in sorte di essere lì.
Un atto d’amore, quindi, questo apparente atto di servizio (“Dov’è amore – del resto, ha scritto Madre Teresa – vi è sempre servizio”) come dichiarazione d’amore all’arte teatrale è questo “Romeo e Giulietta”: una delle più belle, struggenti e necessarie – tanto più in un’epoca come questa, quando sarebbe così facile lasciarsi travolgere e sopraffare da bisogni primari e di sopravvivenza.
E allora, se è così, come si fa davvero a pensare che questi strumenti digitali, pur utili, oggi, a non lasciar affievolire il filo della continuità, possano davvero sostituire la carne e il sangue di intensità così abilmente e tragicamente umane, da far quasi arrossire, guardandole, per l’impietosa amplificazione multimediale?