Il curioso caso del Sindacato degli Spettatori
Fra le tante iniziative attraverso cui il mondo del teatro sta cercando di mantenere desta l’attenzione sul proprio comparto, compare una curiosa proposta: il Sindacato dello Spettatore.
Era il 23 febbraio 2020 – a breve sarà trascorso un intero anno – , quando, a poche ore dal chi-è-di-scena, nei teatri milanesi cominciò a serpeggiare la notizia di una chiusura totale – e, a questa serrata, in alcuni casi, non ha ancora fatto seguito un’effettiva riapertura delle sale. Così, ben si comprendono le differenti reazioni organizzate. Dopo i vari Attrici Attori Uniti, Bauli in Piazza, Amlet_a – solo per citare alcune delle più vivaci esperienze mediatiche, nel milanese -, ecco far capolino il cispadano Sindacato degli Spettatori.
La faccia (perché è pur sempre dal social Facebook, che questo fenomeno nasce) è quella di Stefano Romagnoli. Piccolo imprenditore nell’ambito dell’elettricità, ma, quel che conta, appassionato spettatore seriale, da anni è instancabile globetrotter, quando si tratta di spostarsi dalla sua Foligno alla volta di festival o spettacoli teatrali sparsi per lo Stivale.
Lo conoscono tutti, quelli che si spostano per l’estiva transumanza culturale. Persona affabile, garbata e appassionata, al perenne inseguimento ora dell’uno ora dell’altro, a cui consegnare il suo gadget “elettrico” e che ti sciorina l’esorbitante numero di eventi (oltre che di teatro, è forte consumatore di concerti jazz), a cui ha assistito. Fino 250/300 in un anno: roba da non crederci!
Sono il suo sguardo vorace e il suo sorriso disarmante, che la webzine Ateatro ha accolto nello stilare questa prima proposta per un Manifesto dei diritti e dei doveri dello spettatore.
A tutti gli effetti una boutade: una di quelle graffianti e sornione provocazioni, arci note ai lettori, ad esempio, di Perfida de Perfidis, pseudonimo, dietro cui i redattori di Ateatro talvolta giocano a nascondere il proprio dissacrante o arguto dissenso.
Ben altra cosa, infatti, sarebbe la seria fondazione di un sindacato, che, in primis, è un istituto giuridico definito dalla Treccani come: “Associazione di lavoratori o di datori di lavoro costituita per la tutela di interessi professionali collettivi” – e, qui, mi pare, venga a mancare il titolo di lavoro/lavoratore, se riguardato dal solo punto di vista dello spettatore.
Secondo – lo ricordava Nanni Moretti, nella scena di un film, che a molti è rimasta impressa in modo indelebile -: “Le parole sono importanti”. Così stride fin da subito quel Manifesto dello Spettatore, che se da un lato fa chiaro riferimento alla pagina Facebook Spettatore Professionista attraverso cui Romagnoli ha costruito la sua visibilità, dall’altra dice di un solipsismo, che poco si confà a un qualcosa che nasca con l’intento di farsi paladino dei diritti di una molteplicità. Ovviamente, poi, costituire un sindacato necessita del rispetto di un iter, procedure, stanziamento di fondi e di intenti, tali, da far sorridere di fronte al roboante nome assegnato a questa, che è meno ancora della fondazione di un’associazione.
Ma tant’è: superiamo il limite nominale e passiamo ai contenuti – compostamente distinti in diritti e doveri.
I diritti dello Spettatore
# Avere a disposizione luoghi di conoscenza e cultura dove poter coltivare sogni.# Entrare in spazi sicuri, dove la fruibilità dei servizi base sia possibile a tutti, soprattutto ai portatori di handicap.
E, fino a qui, ci hanno pensato già la Costituzione Italiana, Art 9 (quando alla promozione della cultura), nonché tutta la normativa in materia di sicurezza dei luoghi pubblici e contro le barriere architettoniche.
# Avere informazioni ed istruzioni chiare, di persona e online, per scegliere di vedere uno spettacolo o un altro, di seguire un progetto o un altro. e # Il personale di sala deve essere preparato, cortese e informato sulla programmazione.
…quello che potrebbe definirsi un “minimo sindacale”: lo stesso che contattare il call center di una qualsiasi assistenza clienti e sentirsi in dovere di specificare di volersi interfacciare con persone garbate, efficienti e competenti – al netto di quello che poi sarà l’effettiva esperienza personale.
# Portarsi a casa la locandina dello spettacolo, se lo desidera.
“Pagando, s’intende”, verrebbe da chiosare. Sono mesi – anni, in realtà – che impazza la polemica sul mal costume di “pretendere” che l’arte sia a fruizione gratuita – mettendo in ginocchio, specie nei circuiti più piccoli, professionisti, che, per arrivare a fine mese, sono costretti a fare altri lavori con le ben prevedibili ricadute sulla qualità del loro lavoro artistico – e poi proprio LO Spettatore, prima ancora d’iniziare, rivendica “privilegi” e “regalie”?
E, quasi sulla stessa linea: # Ottenere riduzioni sui biglietti o sul soggiorno, se per raggiungere il luogo si percorrono più di 150 chilometri tra andata e ritorno. In questa fase di emergenza sanitaria, pensare a forme di assicurazione nel caso di annullamento dello spettacolo per chi abbia prenotato viaggio, soggiorno e biglietti per gli spettacoli. E, qui, mi permetterei di ricordare come i vari DPCM abbiano già previsto forme di rimborso per gli spettacoli, che non si son potuti fruire: o attraverso buoni di pari valore o, laddove richiesto, col rimborso effettivo del costo sostenuto – e, anche qui, mi piace ricordare il virtuoso sostegno di quegli spettatori, che abbiano rinunciato al rimborso a sostegno delle strutture. Quanto alla riduzione per chi abbia sostenuto un percorso maggiore dei 150 km, come dire: “Chiedere è lecito…”, ma credo abbia più a che fare con le strategie di marketing dei singoli teatri, Sarebbe come chiedere che, andando in vacanza, si debba godere di un prezzo calmierato tanto più la meta sia lontana da casa…
# Disporre di uno spazio dove incontrare gli altri spettatori.
Non è appunto, questa, la funzione del teatro?? Oltre al fatto che esiste un contenitore più mondano, che è il foyer – per non tacere il fatto che alcuni teatri, vedi Franco Parenti di Milano, stanno creando un business proprio sui luoghi di raccolta/accoglienza, aggregazione e intrattenimento del pubblico (vedi bistrot, Bagni Misteriosi). Ma davvero si vuol penalizzare tutti qui teatri – e, ancora una volta, parliamo di spazi più piccoli ergo dalle economie più precarie -, che non riuscissero a soddisfare questo requisito?
# Avere la possibilità di esprimere la propria opinione e di parlare direttamente con tutti gli “attori” in campo. # Essere rappresentati (o almeno avere ascolto) in quanto spettatori nei consigli di amministrazione dei teatri pubblici e negli organi consultivi del MiBAC(T) e degli enti territoriali che si occupano di spettacolo.
Esistono già teatri, che tengono molto in considerazione il proprio “fan Club” – dall’Elfo agli Amici del Piccolo o della Scala fino a compagnie residenti come quella dei Filodrammatici di Milano, che prima del debutto di una loro produzione, puntualmente organizzavano filate invitando fresh eyes ovvero spettatori “qualunque”, su cui testare, anche attraverso la somministrazione di un questionario, il grado di comprensione e gradimento. E, anche qui: pur annoverandosi fra le azioni virtuose – buone pratiche, per usare un termine caro ad Ateatro -, possiamo davvero pretendere che tutto ciò si cristallizzi in un protocollo irrinunciabile? Soprattutto: questo come si concilia con quei costi, che LO Spettatore vorrebbe più popolari?
# Disporre di un referente dedicato solo allo Spettatore, magari attraverso uno “Sportello dello Spettatore”, soprattutto durante i festival.
La “Logistica”? Che io sappia, molti festival lanciano chiamate di volontari proprio per espletare, a costi il più possibile contenuti, questa funzione…
# Istituire una Tessera dello Spettatore Professionista, con la quale lo spettatore girovago potrà avere facilitazioni nei teatri e nei festival che aderiranno al progetto.
Ottimo! E in linea con moltissime iniziative di gruppi di spettatori, già attivi sul territorio – dagli Spettatori Mobili di Pubblico Non Privato promosso da Teatro Magro di Mantova agli Spettatori Erranti della Rete Teatrale Aretina…
I doveri dello Spettatore
# Rispettare scrupolosamente le normative vigenti in tema di sicurezza, in particolare durante l’emergenza sanitaria.
E, fino a qui… non mi pare potrebbe comunque esserci un’indicazione differente.
# Essere consapevoli che nel settore della cultura lavorano dei professionisti, ai quali vanno riconosciuti un equo compenso e condizioni di lavoro sicure e dignitose.
Curiosa, questa puntualizzazione, che giustamente pare voler salvaguardare la categoria dei lavoratori dello spettacolo, pur dopo aver rivendicato diritti di scontistiche per i fruitori. La torta quella, è: poter fruire di sconti, significa inevitabilmente pesare sulle altre voci di bilancio, o no? Altro discorso sarebbe cercare di creare reti e partnership con gli operatori turistici per predisporre pacchetti dedicati – strategia a suo tempo suggerita a Trovafestival, webzine collegata ad Ateatro, facente focus sul turismo culturale.
# Spegnere il cellulare quando viene richiesto.
# Dimenticare quello che accade “fuori” per poter vivere in pieno il “dentro”.
E poi passiamo ai “doveri” più “poetici”, già di per sé un ossimoro.
Sacrosanto chiedere – e pretendere, qui, sì – lo spegnimento dei cellulari – e non solo il silenziamento – e, soprattutto, il veto di chattare durante la rappresentazione, per evitare di disturbare coi lampi di luce la fruizione degli altri spettatori, oltre che distrarre, rendendo ancor più difficile e precaria, la già per sua natura evanescente evocazione teatrale.
Dopo di che, non è che si possa imporre anche “a cosa pensare”…
# Farsi testimone di ciò che si è visto e raccontarlo agli altri.
Ed idem dicesi per la testimonianza: che dovrebbe essere un’urgenza e sgorgare spontanea, uscendo da uno spettacolo, che ci abbia colpito; e, se così non è, forse tocca chiamare in causa e far sì che si pongano una domanda anche gli altri soggetti coinvolti.
“Dimmi con chi vai…” ovvero: “Dove va il pubblico teatrale”
Al netto di queste personalissime considerazioni, io credo che siano davvero altri i quesiti che sarebbero da porsi in merito a pubblico e riapertura dei teatri.
Intanto duole assistere a un’inspiegabile specie di dicotomia fra teatri e teatranti –quasi che non fossero entrambi sulla stessa barca (ahinoi, in conclamata avaria) e quasi che la salvezza degli uni in qualche modo compromettesse quella degli altri. Ovvio che le esigenze siano differenti: i teatri hanno da sostenere dei costi – continuativi! – di gestione delle strutture, che i singoli attori, drammaturghi, registi, compagnie non hanno; per converso, questi ultimi vivono di una precarietà – anche di contributi da enti pubblici o associazioni private – probabilmente inferiore.
Già, però, parafrasando Kant: “I teatri senza artisti sono vuoti e gli artisti senza teatri sono ciechi”. Ovvero: non si può pensare a strutture teatrali che nascano per uno scopo differente dal portare in scena spettacoli a costi giusti e sostenibili (per ambo le parti), né è un buon costume quello di cercare continuamente “scorciatoie” alternative e fin domestiche, aggirando tutta una serie di oneri, che però poi hanno anche un risvolto economico e fiscale a tutela del lavoratore, appunto.
Detto questo – e per restare in tema – il credo che elemento fondamentale sia, oggi più che mai, il terzo: il pubblico.
Perché la riapertura presto o tardi ci sarà… e perché, almeno nell’immediato, riaprire i teatri significa farsi carico dei costi di bonifica e messa a norma e in sicurezza: oneri che ricadono sui teatri, in prima battuta, ma, di conseguenza, anche sui lavoratori dello spettacolo. Ergo, quando sarà consentito: prima di riaprire cercare di capire dov’è il pubblico? Ha fruito di teatro (da remoto) in questi mesi? Quanto? Scegliendo cosa? Qual è la sua propensione a tornare a un teatro in presenza? E la sua disponibilità a pagare un biglietto? Calmierato? Se sì, qual è il prezzo che sarebbe effettivamente disposto a pagare? Sarebbe un errore tragico non considerare che, questa, è una partita, che si gioca in tre.