La Cassandra di Marinelli/Frongia e la scarlatta memoria che (ne) resta
Non è una pièce di facile fruizione, la “Cassandra” di Francesco Frongia, interpretata da Ida Marinelli – in scena all’ Elfo Puccini fino a domenica 23 marzo.
Non lo è per varie ragioni. Anzitutto non lo è per la tipologia del testo scelto – “Kassandra” di Christa Wolf –, che non nasce come scritto teatrale – pre-teatrale, al più – ed è certo un’opera molto nota ed amata – precisa lo stesso Frongia nel foglio di sala, quasi a sottolinearne la difficoltà emotiva messa in scena. Inoltre un testo poetico e frammentario – quasi la rapsodicità dei sogni e della tradizione orale degli aedi, appunto. Così non fa specie una sorta di timore e tremore, nell’affrontare un tal compito. Eppure, nonostante un inizio un po’ complicato e farraginoso – l’emozione c’era, ma, per chi non avesse conosciuto il testo, c’era pure la difficoltà nel capire in che direzione tutto questo sarebbe mai potuto andare a parare -, se la cava in bellezza, il regista, operando in due direzioni assolutamente felici: da una parte la scelta di un’attrice di età evidentemente diversa da quella della giovane sacerdotessa, ma dotata di un pathos drammatico tale da consentirle di sussumere su di sé la funzione universalizzante della denuncia dei soprusi/falsità del mondo patriarcale, che andava a sovvertire il fino a lì primato femminile. Momento di passaggio fu proprio la guerra di Troia: nell’indugiare del ricordo fra un ante , dominato dalla regina-madre, al cospetto della quale il sovrano Priamo si risolveva nell’essere non sovrano reale, ma marito ideale della regina, ed un post, che svelava la reale natura di Ecuba: dominare i dominabili ed amare gli indomabili; ed il re, a guerra conflagrata, si svela nel suo essere sì dominabile, ma più dalla ragion di Stato che non da quell’algida consorte, che si rivela ora invece troppo più sensibile e viva. L’altra intuizione fondamentale è quella di immaginare situazioni ed oggetti scenici che aiutino ad evocarle, così da animare la fissità di un testo di per sé pensato per la sola lettura scenica, al più. Così sulla sinistra del palco un carro – quello con cui l’indovina viene condotta a Micene come bottino di guerra di Agamennone; sopra c’è scritto: “Was bleibt?” ovvero: “Cosa resta?”, alludendo sia a quella memoria falsata che, degli eventi, verrà data dai greci vincitori, che al celeberrimo testo della stessa Wolf -/bara – è accoccolata in quello, quasi una sorta di regressivo ventre fetale, che Cassandra inizia a raccontare all’amara constatazione del: “Qui nessuno che muore con me parla la mia lingua”: come la del tutto singolare natura del suo dono profetico e le scritte volutamente in un ostico tedesco (alla Brecht?), alludono -; girandolo, ce ne si rivela l’ambivalenza: il suo essere anche cavallo di Troia: così monta in piedi su di esso, la sibilla, infervorata, a restituirci i dettagli dell’estremo sterminio, dopo che i suoi concittadini si mostrarono ancora una volta sordi e ciechi nell’ascoltare il suo monito contro il cavallo. E’ da qui, insomma, che l’eroina agita il suo ruolo politico: l’irresistibile vocazione al “No!” contro quel mondo patriarcale, che fin sul nascere già si mostra orribilmente viziato da connivenze strutturali ed esecrabili – “Non fatevi ingannare da quelli della vostra parte”, ammonisce, ricordando di come la congiura dei uomini aveva trasformato l’ospite gradito Menelao in una spia, al sopraggiungere degli orditi di corte, di cui il fantasma della bella Elena era solo un paravento…
L’estremità opposta del palco, al contrario, è quella deputata allo spazio intimo della sua dimensione di donna: la consacrazione al tempio, il menarca – poeticamente reso da quel “la prima volta che ho sanguinato” – l’amore tenero ed impacciato di Enea, altrettanto insicuro e maldestro di lei, tanto da riuscire sì ad amarla, ma non a portare a buon fine la deflagrazione rituale; il sogno profetico di un mare infuocato – simbolo della guerra contro i Greci e scenicamente reso attraverso l’ evocativa immagine di un mare in scatola, allo schiudersi del forziere, solcato da un’aurea barchetta infantile – a separarli. Da lì le ragioni del non volerlo seguire, dopo la rovina di Troia – “Non posso amare un eroe”, dice. Eppure sarebbe stata quella la sola via di salvezza.
Al centro del palco, poi, un’enorme altare a gradoni dapprima non visibile: è celata, da una sorta di velo di Maia, su cui è proiettato il sogno asfittico che vide Cassandra acquisire il dono della veggenza – “Quando Apollo ti sputa in bocca significa che tu hai il dono di predire il futuro, tuttavia nessuno ti crederà”. E’ su questo altare – anch’esso ingombrato dalle scritte in gesso bianco, quasi sottili messaggi e subliminali note di regia – che si compie il destino tragico della figlia prediletta: il tentativo di domarne l’irriducibile spirito di ribellione – bella, l’immagine dello sciogliersi delle maniche lunghissime, che allude allo spettro della pazzia quale arma con cui spesso gli uomini ricattano le menti femminili per sottometterle -, ma anche tutte quegli assassinii a loro modo sacrificali – Troilo, Polissena… -, compiuti dal tracotante ed impietoso nemico greco, che, dopo l’efferato massacro, riscriverà la storia dal suo punto di vista. “I greci pensano diversamente: pensano che solo ciò che sia visibile o udibile sia vero. […] ed hanno ragione”, chiosa, se vero è che “la ragione è di chi ha successo”. Dunque due mondi/percezioni totalmente agli antipodi: al pragmatico razionalismo greco, qui si oppone un modo di percepire il reale attraverso altri canali. E non è neppure la parola, ciò che – paradossalmente – più si addice all’ inodvina; quanto invece l’immagine. Sembra questa, la lezione messa a frutto da Frongia nel costruire il bagno di sangue della macellazione di Troilo-la-vittima da parte del sacrilego Achille-la-bestia, o nella già citate scene, in cui è proprio la potenza eidetica a colmare lo sguardo, agevolando l’emozione. Cosa resta, dunque? Probabilmente la memoria, quanto meno, se vero è la chiosa finale va nel segno del “Remember me”. Quasi che la memoria, quella almeno, fosse il potente atto di una scarlatta irriducibiltà di donna a quel mondo di uomini sempre così subdolamente conniventi.