Saverio La Ruina e il suo commosso omaggio alle origini e all’identità
Un commosso omaggio alle origini e all’identità – radici ed ali… -: così si sono presentate, il 20 e 21 luglio scorsi, le due serate dedicate a Saverio La Ruina nella seconda edizione estiva del Teatro Menotti alla Biblioteca Sormani di Milano. Così, in attesa di una personale a lui dedicata nella prossima stagione, già la scorsa settimana, il pubblico del Menotti ha potuto familiarizzare con la sua cifra poetica e apprezzare le doti del drammaturgo, attore e regista di Castrovillari. Dal 1999, infatti, qui dirige, insieme a Dario De Luca, il festival sui nuovi linguaggi della drammaturgia contemporanea Primavera dei Teatri.
Una matassa di fili colorati
Potrebbero esserci moltissimi fili da scoprire – e riannodare… -, dietro alla scelta proprio di questi monologhi.
Il tema caldo della famiglia, in primis – radici ed ali, sì, ma anche croce e delizia -, in quel (mancato) ininterrotto dialogo ideale col padre da sempre assente, in “Italianesi”, o con la tomba della madre, in “Masculu e fiàmmina”.
Ma non solo questo. Come in ogni discorso politico, nel senso più autentico e pregante del termine, parlare del singolo non può prescindere dal raccontarlo nel suo Sitz-im-Leben. Così il protagonista/io narrante dei due monologhi, raccontando di sé, non può non rivelare anche la bagna socio politica e storica, in cui sono imbevuti i rispettivi protagonisti.
E nemmeno lo fa apposta. È, infatti, questa, una delle cifre poetiche del Saverio La Ruina drammaturgo: la sua strabiliante capacità di posare una lente d’ingrandimento su un esserino secondario e apparentemente insignificante, per svelarcene via via il dramma, la forza, la fierezza, l’orgoglio e l’audacia, a modo suo, che passano attraverso alla libertà di quello che potrebbe sembrare un antieroe, a guardarlo con gli occhi del mondo. E sono proprio questa sofferta e mai ostentata irriducibilità, che lo rendono al tempo stesso tragico e antieroico, ovattata sordina e involontario megafono, corifero interlocutorio di quella stessa polis, a cui guarda con cauta circospezione, senza togliersi lo sfizio di qualche affondo, pur da debita distanza.
Identità: radici e ali…
E poi il tema dell’identità – sociale o di genere, poco importa -, che, se lo fa sentire italiano in Albania e poi albanese in Italia, al tempo stesso anticipa la sempre più attuale tematiche delle seconde generazioni (dei figli degli Immigrati), mantenendo acceso il focus su quelle seconde generazioni, che in fondo siamo stati anche noi – in Albania, certo, o in Germania, ma non meno nelle opulenti regioni del Nord Italia, a partire dagli anni ’60..
E, intanto la Grande Storia si staglia alle spalle delle piccole storie. Anonimi protagonisti, dicevamo, la cui misura è il sussurrare e la cui vera forza sta nella dignità degli umili.
Altro elemento, che non può andar taciuto è la lingua: una parlata, in Italianesi, più che un dialetto. Ci ricorda che l’italiano non è una lingua unica, univoca e unilateralmente strutturata; né lo è la nostra cultura, estroso esito di sincretiche sovrapposizioni, pittoresche come le differenti etnie, che colorano il campo di prigionia in Albania. E se anche non le sentiamo davvero, le eco di tutte quelle intonazioni, ecco: forse proprio per questo, avvertiamo che qualcosa stride.
In Masculu e fiammina, invece, la lingua si fa vernacolo/lingua madre, l’unica possibile per la confessione di un figlio. Tornano i concetti di pudore, rispetto e normalità, in quel coming out, – sì, ma a posteriori –, che qui ha il tono buono e pacato della foscoliana corrispondenza di amorosi sensi, lungi dagli isterismi e dagli istrionismi di certi talk about. E se la poesia si graffia d’ironia, nessuno si perde a chiedersi se sia (o non sia) politically correct.
La liricità come strumento e misura del dicibile (e dell’indicibile)
E poi la poesia – meglio, forse: la liricità – come quel qualcosa di così sussurrato e piccolo, che è un attimo, perderselo! Se invece si entra nel suo groove, allora non ci si perde nessuna di quelle oniriche tinte azzurre come il cielo e gialle come il grano, che colorano quel mondo verde e grigio – “dello stesso colore della merda” – dell’italiano cresciuto nel campo di prigionia. E non ci si perde il suo sguardo trasognato, quando immagina e poi incontra gli occhi della ragazza dalla faccia gentila.
Saverio La Ruina attore, autore, drammaturgo e regista del porgere e dello stare
A dar vita e quasi impalpabile tridimensionalità a questi personaggi, tutta la maestria dello stesso Saverio La Ruina e del suo teatro dell’essenzialità – come lo ha definito Emilio Russo, Direttore Artistico del Menottti, in apertura. Nonostante il caldo delle serate estive all’aperto, per 75 minuti buoni, infatti, l’artista calabrese non si è risparmiato nel porgerci – questo, il solo termine possibile per esprimere il garbo e la delicatezza, nonostante tematiche spesso dure come solo la vita, il regime, il pregiudizio e la cattiveria degli uomini, talvolta, sanno essere. Parole sussurrate, le sue, e gesti calibrati, piccoli e preziosi, di quelli che devi quasi fermare il cuore e trattenere il respiro, per riuscire a intercettarli davvero. Per oltre 75 minuti a sera, nonostante quegli abiti di scena certo poco adatti all’afoso inoltrato luglio meneghino, ciascuno dei suoi due personaggi è stato – concetto antico e ormai quasi intraducibile e che allude a quella dispositio animi, da cui hanno tratto origine l’otium e la filosofia, ma probabilmente anche l’amore per la cosa pubblica e di certo la tradizione, la rapsodia e cultura – a fior di pubblico.
E pure questa è una lezione. Non soltanto la possibilità di raccontare temi di scottante attualità storico-sociale in modo intimistico e lontano da proclami; non soltanto la capacità di farlo attraverso una scrittura genuina e verista, sì, ma in senso magico; non soltanto la maestria di una recitazione per sottrazione e cura del dettaglio, dove la regia lavora più per urgenza espressiva che per studiato calcolo ad effetto: in più, quel sottile ma persistente invito allo stare, subliminale fil rouge di tutta la produzione di La Ruina.
E cos’altro è il teatro, specie quello di narrazione, se non, appunto, questo stare, uniti, nello stesso respiro, in ascolto attivo e dialettico? Quasi che il tempo si fosse concesso una tregua e, in quella, semplicemente si sta. Eccola, la vera dimensione della libertà, per l’italianese finalmente liberato dalla ferocia del regime; eccolo il solo modo per finalmente dire quell’omosessualità senza bandiere, confidandola ad una madre ormai mai morta, ma viva nella prosa familiare di un dialogo costante ed intimo.