La “Tempesta” di Serra raffinato omaggio alla teatralità
E, finalmente, arriva anche a Milano, “La Tempesta” di William Shakespeare, rivisitata dallo sguardo di Alessandro Serra, che ne cura traduzione, adattamento, luci, costumi, musica, messa in scena e regia. Approda direttamente nella sala grande del Piccolo Teatro Strehler, dove sarà in scena dal 15 al 27 novembre 2022.
Quel che colpisce è la potenza del suo porsi come omaggio alla teatralità. Quasi una dichiarazione: ai teatranti e ai loro colori, umori, generi, eccessi, precarietà… e a quel loro bisogno di perdono, conciliazione e pace, così agognato – il Bardo dicet – dopo tanto evanescente rumore.
La scelta del protagonista
Già la scelta del protagonista ce lo racconta. A interpretare Prospero, infatti, il regista chiama Marco Sgrosso – la cui storica militanza ne Le Belle Bandiere, a coronamento di una formazione giovanile alla scuola di Leo De Berardinis, non ha certo bisogno di menzione. E, Sgrosso, è lui stesso un monumento alla teatralità: uno dei pochissimi attori dalla plasticità sorprendente, in grado di scivolare, con egual credibilità e studiata gigioneria, fra le sfarzose trine d’improbabili donnoni sans-gêne come d’infilarsi negli stivali di austeri generali in pensione. È il delfino della Napoli e mille culuri, che vediamo magistralmente dispiegata nella nota crassa dei marinai Stefano e Trinculo – un Massimiliano Poli e Vincenzo Del Prete d’impeccabile e coinvolgente giocosità. Non meno, la si può scoprire nelle sfastiate spire di Alonso, bisbetico re di Napoli correo di Antonio nello spodestar il legittimo Duca di Milano Prospero o, ancora, in quella cazzimma, che fa sussurrare Antonio, all’orecchio di Sebastiano, di non farsi scrupoli nel commettere un analogo atto fratricida.
Chiamare un attore come Marco Sgrosso, poi, significa anche compiere una ben precisa scelta vocale – che, nel caso in oggetto, Serra riverbera, in direzione divergente, sui due personaggi non umani. Così, dal un lato schiarisce il parlottare di Ariel – delicata e ottimamente giocata da Maria Irene Minelli – nel chiacchiericcio cristallino di un uccellino (lo stesso Bardo faceva congedare Prospero con le parole: “Eccolo, il mio squisito cardellino! Come mi mancherai, mio dolce Ariel!”). Trasforma, invece, lo sgraziato vocalizzo di Calibano – un Jared McNeill dalla fisicità statuaria e dalla vocalità possente – nella roboante furia sotterranea di uno sciamano.
Fin troppo facile scegliere un attore di colore a interprete il figlio della strega Sicorace – nata ad Algeri -; in più, lo statunitense McNeill pare avere poco a che fare con quel mostro deforme d’animo, come d’aspetto contro cui impreca Prospero; né nulla si fa per smorzarne la prestanza. Che, allora, la mostruosità per Serra stia nella forza bruta o nell’assenza di controllo? In contraltare, Prospero, di bianco vestito, armato della sola stregoneria buona derivantegli dal sapere.
“Tutto il mondo è un palcoscenico”: e suo ribaltamento
All’alzarsi del sipario, in contro tempo si solleva un gigantesco drappo torvo, efficace nell’evocare l’orrore dell’immane tempesta. Ed ecco Ariel: sdraiato sulla schiena come sul fondo del mare, a dirigerne e scatenarne i flutti. Eppure, ciò su cui è adagiato, è la pedana, che sarà palcoscenico dei fatti. Salendo e scendendo da quest’ideale recinto sacro, infatti, i neutri attori transustanziano in officianti di quest’atavico rito che è il Teatro. Così non meraviglia assistere alle loro interminabili entrate e uscite, quasi a mo’ di processioni; e non fa specie – anzi, ci riempie di tutta l’elegante cerimonialità del gesto – l’attimo di concertata esitazione della brigata di Alonso, ai quattro angoli di questa scena-scacchiera, prima di salire su quel campo fino ad un’istante prima abitato dalla ben diversa temperie di Calibano e dei suoi nuovi improbabili signori.
Un ribaltamento, dunque: non più il mondo come palcoscenico, ma, al contrario, è quella delimitata sezione di palcoscenico a trasformarsi nel mondo. Già, perché è proprio in questo mondo, sperduto e periferico, dove tutto sembra impalpabile ed evanescente – e non importa che si alluda al teatro o all’ignota isola sperduta nel Mediterraneo -, che tutto sembra invece acquisire un’importanza tremenda.
Ce lo rivelano gli intrighi orditi, ora dagli uni, ora dagli altri, per ottenere il potere; ce lo svela il potere dell’Arte o del Sapere – Scienza o Alchimia, poco conta -, al fin desideroso solo di quella pace, che cerca conciliazione e invoca perdono.
La cifra di Alessandro Serra
E, tutto questo, Alessandro Serra ce lo racconta con l’eleganza e la pulizia formale, che ne contraddistinguono le regie. Gli stessi austeri bianchi e neri di Macbettu – e le sue luci ora decise, ora sfumate fino a svaporare in nebbie -; gli stessi guizzi di colore – rossi e porpora e caldi gialli preziosi -, che accendevano il suo Il giardino dei ciliegi. In più, qui, ci dischiude quel gioco del meta teatro, che ci permette di sbirciare dietro alle quinte. Scopriamo, così, l’attore dietro al personaggio e quella vocazionale dignità, che pur consentendogli di ballonzolare, sculettare e bamboleggiare a destra e a manca – parafrasando Amleto -, non ne scalfisce la bellezza insita nel ruolo.
Preziosa, in questo senso, risulta essere la scena “nei camerini” – spiata, quasi, attraverso l’intenzionale ritardo nella chiusura del fondale. È sbirciando da qui che ci vengono svelati i gesti, la fretta, la concitazione, la celia di attori fino ad un minuto prima impegnati a far i dignitari, che ora roccambolescamente si travestono da figurine risibili e sgangherate. E, se pensiamo che, nella scrittura originaria di Shakespeare, quella è la scena, in cui sono niente di meno che gli Dei ad intervenire come ospiti al fidanzamento di Ferdinando – figlio del re di Napoli Alonso – e Amanda – che, ancora bambina, era scampata da Milano col padre Prospero -, ben altro significato acquisisce la mascherata.
La straziante bellezza dello splendore finale
Dunque, sì: un potente, accorato omaggio al Teatro, alla teatralità e alla generosità – artistica, emozionale – dei teatranti: alla loro disponibilità e capacità di farsi acqua per poter colmare tutte le forme possibili, traboccando col guizzo della loro unicità.
Ecco forse perché poi si arriva al punto di anelare alla pace, dopo tutta la divorante passione, il rigoroso lavoro e la vocazionale fatica per un mestiere, che, alla fine, non rende altro che della stessa sostanza dei sogni. Un’invocazione di pace e perdono: chissà, forse quello del pubblico – già mille altre volte analogamente blandito come nella giocosamente impertinente captatio benevolentiae di Puck, ne “Il sogno di una notte di mezz’estate”… O, forse, in fondo soltanto un miserere mei, in cui il domine sia l’invocante stesso alla fine di una vita votata a quel mestiere croce-e-delizia, che li ha tenuti sospesi per una vita intera fra Demonio e Santità. Ed è appena il caso di ricordare che, fu proprio con questo scritto, che Shakespeare si accommiatava dal gran mondo.