Milano Off Fringe Festival 2023: (Sogno o…) SON DESTO?
“Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e, nello spazio e nel tempo d’un sogno, è raccolta la nostra breve vita…”, scrisse Shakespeare ne “La Tempesta”. Se questo certamente è un aspetto del teatro – la sua volatilità, la cui persistenza esiste solo nella mente e nell’animo di chi l’abbia agita o fruita -, per altro aspetto, il teatro è uno straordinario strumento di narrazione, sensibilizzazione e denuncia.
Così, accanto a spettacoli onirici e surreali, poetici e muti, leggeri come sogni e impalpabili come tutto ciò che meravigliosamente ci scivola fra le dita, accompagnandoci nei territori inesplorati dalla razionalità, per contrappasso trova posto il teatro éngagé. Capace di parlare di argomenti forti e scomodi, urgenti e scomodanti, perché hanno a che fare con l’heideggeriano ne va di… Ecco, di questa natura: “L’ultimo viaggio di Billie” di e con Reno Brandoni, Debora Mancini, Daniele Longo, “Kobarid (Caporetto). Il silenzio degli ultimi” di e con Gioele Rossi per la regia di Alberto Camanni, “Desaparecidos. Nunca mas” della compagnia Il Salto del Delfino e “L’amor che (non) move il sole” di e con Beppe Allocca.
“L’ultimo viaggio di Billie” di e con Reno Brandoni, Debora Mancini, Daniele Longo
a La Fabbrica di Lampadine
La trama racconta la biografia di Billie Holiday, celeberrima cantante jazz, nota anche per il suo impegno contro la discriminazione razziale – è del 1939 il suo “Strange Fruit/Fine and Mellow”, atto d’accusa contro le impiccagioni indotte nei neri dell’America di quegli anni.
Nella lunga, ma interessantissima introduzione, il musicista Reno Brandoni (autore di altre biografie di figure eccellenti della musica pop) mixa pedagogia e affabulazione per raccontarci le origini di blues e jazz, inevitabilmente connesse con lo schiavismo. Chitarra alla mano, si sofferma su esemplificazioni tecnico armoniche, che certamente affascinano. Poi passa alla storia di Billie, prima di cedere il testimone narrativo all’attrice Debora Mancini – restando comunque in scena, assieme al tastierista Daniele Longo, in un accompagnamento attivo del monologo.
Sullo sfondo, le proiezioni illustrative – gigantografie di quelle presenti nei libri di Brandoni – ad evocare gli ambienti e in un angolo lei, Billie/Debora Mancini. Vestita di tutto punto, precisina e attenta, come sa essere lei, con emozione recita il ruolo di una vecchia Billie (questo lo si evince anche dal titolo). E nonostante esordisca con parole da cui si apprende che le rimproverano di avere la mente bruciata dalle droghe… nonostante quel serrato dialogo con un’entità a noi invisibile, ma che è evidentissimo esserle reale… nonostante racconti di esperienza di vita quasi indicibili, non riesce ad abbandonare un aplomb ingessato. Poca movimentazione dello spazio e scarsa propensione all’interazione con gli oggetti/video di scena rischiano di non farci apprezzare quanto meriterebbe uno spettacolo, che, con pochi aggiustamenti e una regia, potrebbe davvero risultare all’altezza di soggetto e interprete.
“Kobarid. Il silenzio degli ultimi” di e con Gioele Rossi, regia di Alberto Camanni
a IsolaCasa Teatro
Quando le parole sembrano non bastare per esprimere le atrocità della guerra, allora forse ha senso tacere – e lasciar parlare le azioni, i corpi, i rumori. Potrebbe esser questo, il pensiero che ha mosso il progetto del giovane attore Gioele Rossi, reduce dalla visita ai luoghi della Grande Guerra.
Così s’inventa un personaggio stralunato, alla Antonio Ligabue, alienato come molti dei soldati tornati, ma mai realmente più se stessi, dalla Prima Guerra Mondiale o dal Vietnam, ma, in fondo, da ogni guerra. Attraverso una partitura scenica solo agita, viviamo sulla sua pelle l’angoscia dei bombardamenti e il terrore dell’azione militare, l’orrore della scoperta di cadaveri e l’incontenibile bisogno di umano contatto e impellente desiderio di casa. Con intuizion non facile – eppur felice, perché in grado di restituircene l’ancor più straziante umanità bambina –, volge tutto ciò anche in acrobazie, clownerie delicata e non ridanciana, ma tragica eppure sospesa e fragile. L’indiscutibile espressività fisica e performativa, la schietta immedesimazione in qualcosa che è evidente esserglisi annidato sotto pelle e la generosità nel voler teatralmente giocare un significato e messaggio altro, fanno di questo progetto un obbiettivo centrato.
“Desaparecidos. Nunca mas” della compagnia Il Salto del Delfino
a IsolaCasa Teatro
Sarebbe stato fin troppo scontato, per una storia così, usare modi accesi e una scrittura emozionale e manipolante. Quel che invece fa, l’autore/attore e interprete Nicola Michele, è un’operazione più alla Saverio La Ruina: abbassare il tono (della voce e della narrazione) per farsi ascoltare davvero – e, chissà, raggiungere più che la pancia, il cuore e la mente del pubblico, instillandogli i suoi mantra – alla Hannah Arendt – “eseguivo solo gli ordini”…
Uno spettacolo forte, questo, per la tematica, fermo, per l’incontrovertibilità della denuncia, necessario, per l’irrinunciabilità del monito. Uno spettacolo autentico, che attraverso una recitazione capace di porgere anche le situazioni più spaventose, ci accompagna attraverso le pieghe della vita, dove le tematiche si accavallano e parlare di desaparecidos può significare anche parlare di emigrazione, perché, spesso, al mondo di sopra s’intesse un mondo di sotto come quando le grida di giubilo per i mondiali, in Argentina, coprivano l’assordante silenzio delle torture e uccisioni.
Tutto questo è sussunto nella maschera/feticcio, splendidamente incarnata da Nicola Michele costantemente accompagnato dalla chitarra garbata, ma mai decorativa, di Alessandro Manunza.
“L’amor che (non) move il sole” di e con Beppe Allocca
al Teatro Officine Puecher
Ideale surreale incontro impossibile fra il Sommo Poeta e Galilei, in questo “L’amor che (non) move il sole” è il solo Galileo che ce lo racconta – così come ci narra la sua vita, il suo insolito amore per la lettura-e-la matematica, la sua avversione per una scienza basata sull’ipse dixit, anziché sulla sperimentazione e la tagliente ironia contro il bigottismo cieco.
In scena Beppe Allocca, un one man show a tutto tondo, classe 1993, ma dall’ “artigianalità teatrale” già matura e scoppiettante. Acuto, arguto – “toscanaccio” -, strizza l’occhio a Benigni, Pieraccioni e tutta la scuola di comicità di quegli anni. Gioca a mixare gli strumenti (affabulazione e video), i generi (satira e narrazione), gli stili (alta declamazione e prosa triviale) nella sua foga tarantolata, attraverso cui avvince un auditorium (anche) di ragazzini, ipnotizzato dai suoi salti, guizzi, aneddoti, freddure, camouffages, reticenze studiate… E, in tutto ciò, ci regala perle aneddotiche, sinapsi anti scolastiche e, soprattutto, la passione – alta, pur nella gergalità capace di strizzare l’occhio alle nevrosi dell’oggi – verso quei valori universali e trasversali che sono la curiosità, la scienza, il teatro, la divulgazione e la libertà di sperimentare, esprimere, dire e saper toccar con mano propria.
Solo un consiglio non petito: attenzione che è un attimo, per amor di celia, sia pur inavvertitamente urtare la sensibilità altrui, specie toccando ambiti così intimi e delicati.