Alla ricerca di Abramo: l’assurdità delle guerre fratricide
Rivisitato e corretto da Stefano Sabelli, che lo fa anche rivivere in scena, impreziosendolo con l’esperienza personale a Gerusalemme, “Figli di Abramo” di Svein Tindberg trova posto nel palinsesto del Teatro Filodrammatici di Milano, dal 7 al 12 novembre 2023.
Operazione tanto interessante, quanto lodevole e coraggiosa. Parlare di Bibbia, Nuovo Testamento e Corano sul palcoscenico di un teatro certo non avvezzo a questo programmazione di programmazione non è cosa da poco. Non è minimizzabile neppure il fatto di cercare di farlo in modo coinvolgente e onesto – senza rinunciare a metterci del proprio e con la schiettezza di chi umanamente prende posizione, pur senza scivolare in un lavoro ideologico o didascalico.
“Un patriarca, due figli, tre fedi e un attore”
Il gioco binario uno-trino: eccola, una delle idee guida di questo spettacolo. È così che, fin dall’allestimento, tutto ci parla di questo ininterrotto rimando, di rado spezzato dall’interposizione del due. Una sorta di triadico processo hegeliano, capace di sussumere, nel numero perfetto, l’ inveramento dialettico di tesi/antitesi. Ed è solo appena il caso ricordare l’importanza delle numerologia nella Kabbalah ebraica – o, per altro aspetto, in quel pensiero pitagorico, che sarebbe poi confluito in un certo cristianesimo dotto, che già individuava la perfezione del numero tre.
Uno è l’attore, in moto costante attorno ai tre sgabelli – le tre fedi? Forse, ma senza una ben demarcata attribuzione in tal senso… E però sono due i musici in scena. Sono Manuel Petti alla fisarmonica e Daniele Giardina alla tromba ad aprire le danze – e non in senso figurato soltanto. Un suggestivo gioco simbolico, in cui la melodia a tutto tondo, sapientemente tramata dal Petti, si accende del saltellante ordito dell’armonia snocciolata dal Giardina in un abile gioco di contrappunti. Un lungo apologo creativo, dunque, fino all’irrompere sul palco del terzo elemento: l’uomo – e per di più danzante, con quelle movenze un po’ sirtaki, che sanno d’inclusive coinvolgenti danze mediorientali, capaci di abbattere le barriere fra gli individui.
“In principio era il Logos…”
In costante dialogo coi due – e col pubblico – è lui, l’attore/uomo, il donatore di senso di questo martoriato precipitato dell’Eden, che è il mondo – specie sulla Spianata delle Moschee. È lui, che si fa voce e fiato di quest’aggrovigliata vicenda, che si perde nella notte dei tempi fino a risalire al progenitore unico delle due stirpi – ebraico-cristiana e musulmana – a partire dai due figli di Abramo – Isacco e Ismaele. Ed è affascinante, la figura di questo Abramo primo oppositore dell’idolatria del politeismo: di fatto, semplicemente un giusto, a cui contro ogni ragionevolezza era stato promessa una discendenza innumerevole come le stelle e che avrebbe poi dato origine alle tre religioni monoteiste, fondate sulla parola – rivelata o scolpita nella pietra, poco conta. E come non pensare che la parola dice soffio – senza il quale sarebbe impossibile pronunciarla – e, questo, dice vita, anche nel senso forte di anima o principio vitale – coma la Genesi o il Timeo insegnano?
Viaggio iniziatico
Lo spettacolo si pone come una sorta di viaggio iniziatico di un attore che, recatosi a Gerusalemme per un progetto sul Discorso della Montagna, si scontra con l’assurdità della spartizione/militarizzazione di quel Sancta Sanctorum, conteso dalle tre religioni sorelle per genesi. Un surreale gesto di polizia armata a soffocare in modo rapido ed efficace lo straziante e furibondo corteo funebre per l’ennesimo giovanissimo caduto di questa guerra fratricida: eccola, la miccia capace di risvegliare l’uomo – e, chissà, forse anche il giusto -, trascinandolo in un percorso nello spazio (i luoghi di Gerusalemme) e nel tempo (fra presente e passato, alla ricerca di Abramo) e negli incontri (dalla guardia al rabbino, dal bimbo di strada ai ragazzi del servizio civile) e nella curiosità di aprirsi ad altri sguardi, alla ricerca di un senso.
Se tutto ciò è ben congegnato – musica, narrazione, affabulazione, ironia, riferimenti all’attualità, performatività e declamante lettura a leggio dei passi delle Sacre Scritture -, se evidentemente notevole è lo sforzo produttivo, che non lesina, in un costante commento di video proiezioni, anche, qualche dubbio resta sulla pur generosissima performance del Sabelli. Un ritmo spesso troppo accelerato – e talvolta concitato, fino a soverchiare col volume l’emozione -, non consentono di entrare in quella respirazione condivisa, che è il fare-e-fruire del medesimo irripetibile teatrale. Peccato, perché traspare evidentissima non solo la sua capacità gigionesca – soprattutto, ma non solo, nei cammei, in cui affiora la sua fine arguzia da caratterista – accompagnata dal mestiere, ma tutta la profonda e umana affezione a un progetto e ad un impegno di sensibilizzazione irenica da autentico giusto – a prescindere dall’agnosticismo o confessione religiosa.