Harvest – quanto costa un uomo al chilo?
In scena fino a domenica 29 allo Spazio Tertulliano, “HARVEST – Quanto costa un uomo al chilo?” è un lavoro che obbliga ad una serie di distinguo.
Anzitutto la drammaturgia originale, di Manjula Padmanabhan – tradotta da Alice Spisa.
E, forse, è un po’ questa, la parte debole. Cosa racconta, “Harvest”? Una storia di traffico d’organi – come lascerebbero intuire il titolo e, soprattutto, la locandina? Di fatto non proprio: perché l’epilogo sorprenderà, aprendo su scenari altri dal solo mercanteggiare fra Occidente e Paesi Poveri. Sì, l’oggetto del contendere è un po’ quello – il ricco West che compra, con le monete scintillanti dei beni di consumo, e il Terzo Mondo che capitola di fronte a tutto quell’inimmaginabile benessere. Sì, ma poi la chiave di lettura è fin da subito dichiaratamente non realistica: i personaggi – specie quello di Ma, la capofamiglia – vengono tratteggiati con una vena d’ironia, che sconfina nel grottesco; oltre al fatto che intervengono figure e situazioni dal sapore fantascientifico, che ricordano più gli interventi straordinari del deus ex machina, che non un qualcosa che abbia a che fare con la fattualità del reale. E questo, forse, stempera quella componente di denuncia, che riaffiora, germinale, in più punti della narrazione. – “Ma che mestiere è essere stracolla’ sul divano di casa?” si chiede Ma, o, ancora: “Ma che travagli è un travagli che mi trasforma una moglie in sorella?”, alludendo ad una delle tante menzogne, che la famiglia Prakash è disposta a raccontare pur di mostrarsi idonea a qual ‘travagli’ davvero al massacro. In fondo forse è un po’ questo: l’averlo saputo intercettare soltanto, il germe della denuncia – sia nei confronti di chi, forte del proprio potere economico, pensa o crede di potersi comprare tutto, col tintinnio lusinghiero del: “Tutto quel che vuoi”, sia di chi, corrispettivamente, fa presto a dimenticare la situazione di bisogno da cui lui stesso proviene e la rimira con orrore nel proprio vicino/fratello, abiurandola nel nome del dio del benessere. Non che manchino, gli spunti di riflessione, dunque; ma, evidentemente, non riescono a forare l’epidermide della boutade. Così, fin dalle prime battute, è emblematica l’odiosa prevaricazione dalla suocera, che, sciorinando assieme alla giovane nuora corone di rosario e vademecum della buona moglie, enfatizza: “…e sottomessa alla madre del marito”; e, sempre detto da lei:, quando le cose oramai, staranno per precipitare: “Ricchi siamo ora e ricchi saremo dopo!”, abbarbicandosi, a quegli oggetti/staus simbol, a cui è disposta ad immolare i suoi stessi figli. Così come ha buon gioco l’altro figlio, lo ‘scapestrato’ Gitu, a scagliarlesi contro, stigmatizzando il prototipo del ‘nuovo ricco’: “Muoio presto – dice, tornando da chissà quali esperienze di vita da marciapiede – di overdose, sì, di libertà… quella che voi nuovi ricchi arrivati non conoscerete mai”. Ma tutto questo sempre in leggerezza, senz’adeguato affondo – né psicologico, sui personaggi, né drammatico nel crescendo dell’azione. Così sorridiamo amaramente, quando Virginia – il ‘Datore’/deus ex machina – in un suo contatto alla Grande Fratello sembra cedere ad un momento di verità: “Siete come dei pesci rossi umani. Meglio della tv.”, aprendo poi uno squarcio sulla desolante situazione di deserto affettivo e relazionale, che contraddistinguerebbe il suo Paese – che sappiamo solo essere ‘più a nord’ dal momento che una delle didascalie iniziali recitave: “Una regione del mondo imprecisata: più a sud e più avanti nel tempo”.
Quindi la tesi è che lo sfruttamento dei Paesi Ricchi arriverà a cannibalizzare fino le anime? – Viginia evolverà in un Virgil dalle sembianze inaspettate e con un intento dichiarato: “Volevo un corpo di giovane uomo, in cui vivere… volevo un corpo di giovane donna, in cui seminare…”, delirante, ma esplicativa, questa illuminate tesi finale con tutte le farneticanti teorie di sopravvivenza del singolo – in barba a secoli ti teoria evolzionistico! Sì, ma poi, resta che tutto questo è quasi sempre solo alluso.
Differente, il discorso sulla regia e drammaturgia – di Matteo Salimbeni e Fulvio Vanacore -. che coglie nel segno in alcune intuizioni, soprattutto: la scelta di leggere quelle didascalie che difficilmente avrebbero potuto esser rese in altro modo – il palazzone/alveare di 50 piani, in questo luogo lontano nello spazio e nel tempo, le cui condizioni di degrado avrebbero richiesto un documentario/verità ad hoc… – e, agganciata a quest’idea di ‘giocare a carte scoperte’, il collocare la doppia consolle di regia direttamente in scena o l’affidare lettura di parte delle didascalie agli stessi personaggi, in un alternanza di teatro/metateatro. Ancora: azzeccata anche la trasposizione linguistica nell’invenzione di un dialetto tronco e smozzicato, contaminando un po’ l’andamento veneto ed un po’ con termini d’estrazione meridionale, vivacizzato da neologismi illuminanti – parlando alla nuora, Ma, la definisce ‘sapientina scontornata’, ad esempio, che ben rendo l’idea della diciannovenne con l’argento vivo addosso, ma imbrigliata dall’ingombrante suocera ed incastrata fra un marito che non ama ed un cognato per cui nutre un’ardente passione. A tal proposito: indovinata è stata pure la scelta di restituire la preponderanza scenico-narrativa della capofamiglia, facendola interpretare da un Beppe Salmetti, la cui presenza anche fisica troneggia sugli altri interpreti/personaggi sottomessi all’ingombrante Ma. Bravo, Salmetti, nel mimare le posture di egoistico possesso dei beni di consumo alla fine ottenuti dall’anziana, così come nel restituirne le volutamente omesse ignoranze e quell’ignoranza furbesca, che ci riporta a certe maschere popolane della nostra commedia dell’arte. Ma bravi anche Michele Mariniello – a restituirci Om, il protagonista, di cui la didascalia dice che sarebbe stato anche bello, se non fosse stato così preda del suo stato ansioso e che Mariniello ben riporta, in quel suo ostentare un ‘tutto per bene’, che forse, però, ci priva del dramma ponderale della scelta ‘lavorativa’ di Om -, Giacomo Marettelli Priorelli – lo spregiudicato Gitu -, ma soprattutto le due fanciulle: Carla Stara – Giaia, la protagonista: di cui ha saputo rendere in modo garbato e delicato le stridenti passioni – e Cecilia Campani dalla performatività e mimica notevole.
Per chi volesse: ancora fino a domenica allo Spazio Tertulliano.