“‘A Cirimonia” unicum palazzoliano
Da più di quindici anni, oramai, non c’è stagione del Teatro della Contraddizione che non sia impreziosita da almeno uno spettacolo di Rosario Palazzolo: quest’anno, dall’11 al 14 aprile, è stata la volta di “’A Cirimonia”. Chicca quanto mai palazzoliana, questa, unisce alla risata lo sconcerto, accompagnandoci per mano verso uno svelamento, che è solo un attimo… per poi ri ammantarsi, come nella montaliana “Forse un mattino andando”, di un’inesorabile e dimentica ripetizione – della cirimonia in Palazzolo, dell’anonima routine della vita, nell’ermetico. E tutto risulta ancora più destabilizzante.
Rosario Palazzolo: inconfondibile marchio di fabbrica
Folgorata da “Letizia forever”, conquistata dalla trilogia “Santa Samanta Vs” e da “Eppideis”, è diventato, oramai, quasi un atto scaramantico, per me, assistere agli spettacoli di Palazzolo, ogni qual volta si affaccino nei teatri milanesi. Sue cifre sono: un dialetto siciliano volutamente stentato – che regala sterminati spazi di libertà creativa, nel sottile gioco del cercare di tradurre il vernacolo in un simil italiano -, la maschera di personaggi alla art brut e intenzionalmente un poco fuori dalle righe e la capacità di ribaltare quello che, certo, fin dall’inizio subliminarmente non torna, ma che mai riusciremmo a indovinare dove andrà a parare, divertiti, come siamo, sulle prime, dalla bonarietà del registro grottesco.
Vengono in mente aggettivi come sgangherata, strampalata e sghemba, pensando all’estetica, ma anche alla drammaturgia dei suoi lavori… Sì, però, di quello sgangherato, strampalato e sghembo, che, una volta fatta accoccolare la sua preda nella zona più confortevole della tana, con mossa repentina si sfila la maschera a mostrare chi davvero è il burattinaio e chi, in fondo, il pupo. Cos’altro è, il teatro, se non questo – fascinazione, incanto e, infine, manipolazione? Che altro raccontano, narrativa e tradizione orale, immortalate nei miti di Sheherazade o dell’astuto Ulisse, se non il potere ammaliatore della parola? E, se questo è, a pieno titolo, allora, la scrittura di Palazzolo rientra in questo solco, che affonda le radici in quell’antichissima cultura, sbocciata proprio fra la Grecia e la Magna Grecia del palermitano Palazzolo.
‘A Cirimonia
Scritta nel 2009, “’A Cirimonia” è il tipico prodotto palazzoliano e inaugura la litania delle altre sue drammaturgie, che giocano fra sconcerto e svelamento. A differenza delle già citate, però, qui la trama propriamente intesa cede il passo a una statica dimensione onirico/utopistica, dov’è la musica, elemento drammaturgico dichiarato, a farla da comprimaria.
Più che raccontare/stigmatizzare questo o quello, qui, l’intento par essere quello di creare un’atmosfera e affondarci. Come se non ci fosse altro modo per sopravvivere; quasi che il solo modo per resistere al pantano, in cui stanno sprofondando i protagonisti, fosse l’assurdo rituale di sforzarsi di ricordare. In realtà vorrebbero il contrario: espungere il perturbante, negare l’indicibile, rimuovere la pur evidente brutalità; ma ‘A Cirimonia esige verità e memoria – o, forse, solo commemorazione.
Così ‘u masculu e ‘a fiemmina dichiaratamente questo fanno: “Prima da cirimonia ci vestimu e dopo a cirimonia ci svestimu”, in un gioco dalla vacuità asfittica e beckettiana, pescando costumi e robe da una congerie di cose arruffate – metafora, forse, del meccanismo della memoria -, entro cui frugano e da cui traggono oggetti sempre un poco raffazzonati e sbagliati, ma che li spingono avanti in questo ossessivo dolorosissimo gioco del “mi ricuordo…”. All’apparenza, è il giorno preciso del mese preciso e bisogna essere contenti. Come in molte famiglie la contentezza è obbligatoria e imposti sono il rituale e i ricordi, che di tanto in tanto irrompono con interferenze solitarie – dai colori scarlatti e rumori assordanti, nelle atroci visioni uditive de ‘a fiemmina, sembrano invece colorarsi di tinte celestiali e delle note forse un poco cantilenanti di ossessive filastrocche infantili negli squarci forse edulcorati dal negazionismo de ‘u masculu.
Unicum palazzoliano
A differenza che nelle successive “Letizia forever”, la trilogia “Santa Samanta Vs” o “Eppideis”, qui l’elemento cronicistico non sembra così preponderante e ben delineato. Si allude a un incidente forse automobilistico o, chissà, a un fatto di di sangue; a un certo punto sembra quasi che possa esser stato scongiurato in extremis – anche se, le evidenze ci dicono che non è andata così.
Eccola, la nota, che rende questo lavoro un unicum. Pur senza perdere il suo graffio, più che verso questo o quel fatto, questo spettacolo, dalla pur immutata valenza di denuncia socio culturale, sembra però puntare il dito più contro una mentalità – quella della prepotenza, della prevaricazione, della brutalità. Di sé, i protagonisti dicono: “Siamo qui per ricordare il chi e il cosa – sì, ma, quasi filosoficamente, anche – il perché, il per come e il per quando”. E, questo, ci proietta nelle atmosfere sospese e metafisiche di “Aspettando Godot” di Bechett o de “Le sedie” di Ionesco – o, ancora, di quel “Totò e Vicé” di Scaldati e con Vetrano/Randisi, che pure furono interpreti anche di questo “’A Cirimonia”. Chissà con che nota emotiva, nelle loro mani… così come chissà il “Totò e Vicé” reciprocamente interpretato da Palazzolo/Pandolfi.
Per tutto il tempo, restiamo inchiodati a questi Estragone e Vladimiro non meno grotteschi e clowneschi degli originali. Rosario Palazzolo è anche interprete de ‘u masculu, che porta in scena con una straordinaria attenzione ai tremori fisici e alle debolezze, fragilità e incertezze del vecchio cieco, sul cui viso passano i deliri, ma anche gli scoppi d’ira, le argute furbizie e i repentini attimi di ostentata tenerezza di certi personaggi di De Filippo… ‘A fiemmina è impersonata da Anton Giulio Pandolfo, co fondatore, nel 2002, della Compagnia del Tratto, antesignana del Teatrino Controverso di Palazzolo. Attore dalla prossemica e vocalità straordinarie, Anton Giulio Pandolfo rivela tutta la sua formazione di mimo nell’espressività facciale. Passa tutto, su quel viso, come su uno schermo a presa diretta con le emozioni del personaggio. E quando poi i ruoli s’invertono – e il dramma, in parte, si svela – restiamo esterrefatti dalla sua incredibile capacità di ribaltare ruoli, toni e umori.
E pure questa è una delle costanti degli spettacoli di Palazzolo: da Salvatore Nocera a Filippo Luna, da Delia Calò a Sabrina Petyx, solo per citarne alcuni, sorprendente è la sua capacità d’intercettare e dirigere attori dalle capacità straordinarie. Non meno accorta, poi, è la cura della regia in tutti i suoi aspetti: dalla disposizione dello spazio all’attenzione ai movimenti, dai costumi alle luci e agli oggetti di scena, trasformando ogni volta il palco in una scatola magica dalla coerenza chiozzotta e inconfondibile, ideale razzo di partenza verso la più pericolosa e affascinante delle orbite: in rotta di avvicinamento al pianeta uomo.