Dammacco: quando la morte fa la tara alla felicità

Rimasto in scena dal 28 gennaio al 2 febbraio 2025 al Teatro Elfo Puccini, “La morte ovvero il pranzo della domenica” ha regalato al pubblico milanese una nuova pagina della poetica di Piccola Compagnia Dammacco. Sempre fedele alla propria linea di sapiente equilibrio fra ironia e satira, grottesco e liricità, questa nuova fatica si tinge anche di visionarietà e humor macabro, a tratti, nel tentativo, forse, di smorzare la profonda indicibilità di quel tabù mai davvero redento, che è la morte. Fil rouge costante è un qual certo languore, quasi dolente, che, senza mai volgersi in facile struggimento, si centellina in piccole stille di beffardo amarcord.

Come una boule de neige

Come una boule de neige ovvero come uno di quei ninnoli, spesso capaci d’incantare i bambini, ma a cui di rado degli adulti non sentimentali ammetterebbero di dar importanza (per riscoprirne forse poi la magia, talvolta, in quell’età più vespertina, in cui troppo corto è il fiato, che ci separa dall’orizzonte, per conceder sconti all’inautenticità), così questa pièce ammalia gli occhi e accarezza il cuore. E non lo fa con accattivanti giostrine carillon o con immagini dai tratti morbidi o dai colori pastello. Come sempre, la cifra dei Dammacco è, al contrario, una quasi art brut. Popolata da figure spesso al limite del freak, le vedi muoversi in scenari semi oscuri, su cui subitanei s’accendono impietosi fasci di luci perforanti. E nemmeno è performance, sebbene la straordinaria maestria di Serena Balivo, da sola in scena – qui, come nella gran parte del loro repertorio –, nulla abbia da invidiare alle acclamate esibizioni dei più roboanti nomi del panorama nazionale.

L’unicità di Piccola Compagnia Dammacco

Il teatro dei Dammacco è lavoro e creazione, ricerca e instancabile affinatura di quella loro cifra così peculiare da renderli, di fatto, non replicabili. È teatro di parola, il loro: un profluvio di sillabe dalla musicalità e dal ritmo rubati alla quotidianità. Creato dalla penna di Mariano Dammacco, viene poi demiugicamente insufflato nelle grottesche movenze dei suoi personaggi, a cui, da sempre, voce, anima e cuore, li danno le solo apparentemente sgangherate, ma in realtà rigorose eppur godibilissime, azioni della Balivo.

“LA MORTE OVVERO IL PRANZO DELLA DOMENICA” Serena Balivo/Mariano Dammacco al Teatro Elfo Puccini

“La morte ovvero il pranzo della domenica”

Che non sarebbe stato uno spettacolo comico, questo “La morte ovvero il pranzo della domenica”, un po’ lo si sapeva. Conoscendo la produzione di questo impareggiabile duo, però, neppure si poteva del tutto escludere di assistere a qualcosa di garbatamente, causticamente irriverente.

Gioco facile, quindi, indovinare che avrebbero prevalso l’ironia e la parodia dell’italico rito familiare, così sconosciuto a tante altre culture, quanto duro a morire nella nostra. Così, sarebbe stato legittimo attendersi che quella morte potesse essere anche solo metafora della fatica di sostenere le ripetitive dinamiche dei conviti domenicali. Una sorpresa, dunque, leggere, già nel foglio di sala, un’allusione alla morte effettiva intesa come quell’ineluttabile, che costantemente fluttua su ciascuno di noi – mirabilmente sublimata, a un tratto, in scena, nel quadro narrativo dalla struggente evocatività di una simil aurora boreale, a cui offrir in libagione prosaicissime briciole di un pane ancora avvolto nel suo anacronistico, ergo arcaicamente simbolico, canovaccio. Ancor più spiazzante, pertanto, assistere allo scolorare della prima (la morte/fatica) nella seconda (la morte nella sua accezione propria e ontologica).

Incipit al graffio

L’incipit è al graffio. Nulla fa, la pur attempata figlia, per dissimulare tutto il suo bonario fastidio – da sbrigativa sciura milanese – per quel puntuale invito. Piano piano, però, poi iniziano a scintillare frasi ricorrenti, che si ammantano di sempre maggior indulgenza. Mi torna in mente la parabola della vita, col suo recitare: “A 5 anni: mio papà sa tutto”, per presto passare al: “A 10 anni: mio papà sa quasi tutto” e: “A 15 anni: ci sono molte cose che mio padre non sa” fino a: “A 20 anni: mio padre non capisce niente; a 30 anni: è inutile parlare con mio padre, non c’è dialogo”. Inevitabile la chiosa: “A 40 anni: chiederò consiglio a mio padre” fino a: “A 60 anni: ah, se avessi ancora mio padre!”. Allo stesso modo, qui, quei vezzi di iper ordine-e-controllo del più che ottuagenario genitore, che a inizio spettacolo la portavano a ironizzare: “Ha ricreato l’ufficio in salotto; c’è tutto: manca solo un collega…”, lasciano via via posto ad una dolcezza non languida, ma dolente. È come una lunga seduta di auto psicanalisi. Se, da un lato, le consente di intercettare e carpire quei fragilissimi gesti solidali degli anziani genitori, novelli Filemone e Bauci invischiati nell’annosa questione della prefigurazione/organizzazione della loro sepoltura, – “Per non darti fastidio”, si affrettano a puntualizzare -, dall’altra non può che sciogliersi in umorismo – macabro, a tratti, e feroce, come le incontenibili risate, che, talvolta, improvvise scrosciano, in presenza di un caro estinto: lungi dall’esser sberleffo o mancanza di rispetto, probabilmente altro non sono che lo straziante modo, con cui la vita cerca di negare l’inemendabilità della morte.

Recupero della funzione del Teatro

Già, perché è questo, il punto: forti delle tecnologie e dei progressi della scienza, possiamo anche far finta di beffarci del passar del tempo – ma, prima o poi, quell’appuntamento non possiamo mancarlo. Ed è un bene che il teatro torni a dirlo. È un bene che torni ad assumersi l’onere di esprimersi senza censure culturali, quel Teatro, che, nato ad accompagnamento del sacro e dei suoi riti di passaggio e pasciuto nella maieutica della catarsi, ha la singolare facoltà di non perdere il suo potere schermante di agone ovvero di non-luogo-reale. Così tutto si può dire e fare, nel Cerchio Magico del Teatro. Qui, tutto ha la stessa evanescente inconsistenza dei sogni e, proprio per questo, ben si offre ad essere luogo di proiezione e sperimentazione: una sorta di prova generale della vita. Ed è in questa zona franca, che Dammacco può permettersi anche di sfiorare le più scabrose ipotesi teleologiche: “E se dopo non c’è niente? “, esordisce, a un certo punto, la madre.

“Il pranzo della domenica ovvero l’ultima felicità”

Buonanotte ai suonatori!”, sbrigativamente chiosa, spalancando in realtà una voragine di angoscia nella figlia/abbandonico soggetto di proiezione dello spettatore, che non a caso innesca il crescendo dello humor macabro. Ed è qui che i sottilissimi aghi della boule de neige iniziano a depositarsi, cristallizzandosi negli indicibili fantasmi del come sarà dopo, quando l’uno o l’altro degli sposi sopravvissuti, chissà, farà propri anche i vezzi dell’altro, per non sentirne troppo la mancanza… o quando la sagoma della finestra, che incornicia il saluto dei genitori, diventerà prezioso fermo immagine ad accompagnarne il ricordo. “Il pranzo della domenica ovvero l’ultima felicità”: c’è tutto, in questa chiosa.