#primalezionesulteatro Luigi Allegri e il bandolo della matassa
Perché la gente va poco a teatro? Quante volte ce lo siamo chiesto…
Poi ognuno ha la sua risposta – chi lamenta i costi di fruizione e chi la cripticità della proposta artistica, spesso.
Di fatto, al di là di polemiche di settore – FUS, riqualificazione dei teatri e quant’altro – resta un po’ vero che ci si avvicina con un timore reverenziale ad un certo genere di teatro. Perfino a me è capitato di gioire all’idea di poter assistere a questo o quello spettacolo in compagnia del tal critico o della tale addetta stampa – o comunque di persone dalla comprovata militanza di visione teatrale.
Già, ma da dove deriva questo tarlo?
“Almeno una cosa so, di non sapere”, insegnava Socrate. Così mi piace investire del tempo nel lavoro oramai per me faticosissimo di documentarmi: e non alla maniera liquida e contemporanea dello zapping informativo via web – eccedo, in quella: non faccio altro, in fondo… -, ma in quella più canonica di un rapporto fisico ed esclusivo con un caro e vecchio libro…
Ed eccoci arrivati a “Prima lezione sul teatro” di Luigi Allegri, ed. Laterza. Mi sembrava indicato, un paio d’anni fa, quando lo acquistai… Ma poi il tempo passa e spesso è la vita a farci da magistra – ed i mentori ed i maestri reali: nella dialettica e nella fatica di ogni giorno. Così, se non mi fossi decisa a leggerlo ora, forse la realtà avrebbe colmato le mie lacune più basilari almeno – e non avrebbe avuto più senso farlo. Ed è proprio Allegri – Professore ordinario di Storia del teatro e dello spettacolo presso il Dipartimento di Lettere, Arti, Storia e Società dell’Università di Parma, di cui è diventato Direttore nel luglio del 2012 – che, forse, coglie nel segno…
Una lunga carrellata sul rapporto Teatro e Realtà: dall’inevitabile mistificazione dell’esclusivismo maschilista – almeno: fino alla furbesca svolta ammaliatrice di una certa Commedia dell’Arte, dice lui -, per arrivare alla trasfigurazione della realtà ad opera del melodramma, per un certo verso, e del Romanticismo, per un altro. Come se tutto stesse aspettando solo quello: la manipolazione ideologica fatta dalla cultura borghese, che, invece di divertimento, evasione e trasfigurazione religiosa o epica, impone un modello emulativo. Perché imitare ci piace – insegnava Aristotele… E poi perché è giocando all’imitazione, che impariamo – basta ricordare la terza metamorfosi nietzscheana, ma anche tutte le ancestrali figure di divinità bambine, creatrici, più o meno scientemente, col loro ingenuo giocare…
Ma, soprattutto, perché ricostruire una realtà nella zona franca del playing teatrale sembra far lo sgambetto alle sovrastrutture ideologiche e lasciar passare ingiudicato che: “E’ così” e “Così dev’essere”. Fino a costruirsi il paradosso della “quarta parete”. Come se davvero potesse proteggere gli attori dall’occhio perturbante degli astanti; come se davvero il pubblico potesse assistere indisturbato come attraverso un enorme microscopio, acceleratore e condensatore di reali dinamiche sociali.
E cosa capita, allora, quanto la funzione ideologica sia esaurita e le nuove tecnologie siano in grado di offrire all’arte strumenti più impietosi e raffinati? Quando l’obbiettivo cinematografico è riuscito a frugare nella realtà fino a metterne in mostra i lati più nascosti, il teatro è stato reso libero di sperimentare nuovi linguaggi e in nuove direzioni. “Libertà espressiva”, la chiama Allegri e puntualizza: “Ma questa raggiunta libertà viene poi scontata con quel fenomeno di distacco di aspettative di uno spettatore assuefatto ai canoni della rappresentazione realistica, che determina quella difficoltà di comprensione, quella sorta di astrusità così spesso lamentata dagli spettatori del teatro contemporaneo”. Eccolo, il bandolo afferrato! In barba a chi pensa che il teatro sia per tutti, Allegri sembra dire non tanto che non sia così, in linea di principio; quanto che lo sia per questo teatro contemporaneo, in cui se lo scopo non è più né magico, né religioso, non d’intrattenimento e neppure in grado di assumersi un per quanto ideologico incarico educativo, allora forse è proprio la valenza politica e comunitaria, quella che è venuta meno. E, allora non fa specie che, riproducendo i meccanismi individuali di questa o di quella monade che ciascuno di noi è – in questa cultura solipsistica -, riesca a coinvolgere, interessare o comunque smuovere solo quei ‘similes’ che “cum similibus congregantur”. Ergo è tutta una questione filosofica, in fondo? Probabilmente sì, perché se vero è che “primum vivere deinde philosophari”, vero è anche che solo una società così parcellizzata e dimentica della propria retro cultura simbolica e comunitaria poteva creare un teatro tanto “a misura d’uomo” – capovolgendo il motto di Protagora (“L’uomo è misura di tutte le cose…”).
Io fino a qui sono appena a pagina 71: se incuriositi…