A bottega da Ceronetti: per raccontare una Guerra Grande solo per scelleratezza
Per tre giorni soltanto – dal 3 al 5 ottobre – Guido Ceronetti porta in scena al Piccolo Teatro di Milano il suo “Quando il tiro si alza”, a commemorare il centenario dalla Grande Guerra. Uno spettacolo d’antan: ritmi e colori brechtiani, in cui l’evidente artigianalità dell’allestimento trascolora nell’evocazione di fatti che, al di là della contingenza storica, si caricano di una valenza metamorale – e, forse proprio per questo, profondamente umana.
Ce lo dice già fin nel fondale, che campeggia per quasi tutto il tempo col suo color giallo zafferano: “1914-1918: la storia dal volto inumano”. Ed è proprio questo, quel che Ceronetti ci racconta: di come, alla fine, quel primo atroce impatto bellico con la modernità non abbia lasciato né vincitori, né vinti; ma solo orfani, vedove, profughi, uomini così spaventati da farsela sotto e da augurarsi di non essere visti neppure dal nemico che fugge, nelle loro trincee, per non essere costretti a imbracciare di nuovo la baionetta. Quanta letteratura, in queste immagini – e quante evocazioni poi sempre uguali, nei ricordi anche delle guerre che sarebbero seguite -: da Apollinaire, che lo stesso Maestro declama in scena – in francese -, a Céline, Zweig, Ernst Jünger, Alfred Döblin, Ungaretti fino a Guido Piovene – le cui pagine, invece, Ceronetti efficacemente sceglie di affidare ai quattro attori, che, seduti in faccia al pubblico, si alternano in una lettura bustrofelica, mentre lo spettro della morte incombe, indifferentemente, alle loro spalle: ci dicono dell’atroce ed insensata follia di quell’attacco col gas, che, una volta sterminati coloro ai quali era diretto, finì con l’avvelenare gli stessi austriaci, infliggendo loro un’agonia ancor più sudbola e lenta, falsamente riparati dalle loro inutili maschere a gas.
Lo iato, dunque, è quello fra il volto inumano della guerra e quello umano della vita, ben tratteggiato, quest’ultimo, certo dal turbinio del ballo iniziale con tanto di marionette – cifra dei suoi spettacoli, nonché creature da lui volute ed amate, quasi, con struggente ardore paterno -, ma anche della scena finale, in cui una vedova di guerra inaspettatamente accoglie l’assassino del marito morto al fronte, perché riconosce, in quello, lo strumento e non il mandante di un’uccisione, di cui solo l’insensatezza dello scontro bellico è stata il vero colpevole. E ce lo racconta per quadri – episodi… -, spesso introdotti da cartelli brechtiani – con disarmanti scritte in un oramai inusitato corsivo da bella grafia delle elementari – e dalla simbologia evocativa forte: la morte – la plumbea ballerina, che aleggia quasi impercepita: e che talvolta indossa guanti scarlatti, ad esplicitare l’efferatezza della sua venuta, tal’atra compare a falcidiare trasversalmente gli sventurati soldati -, i soldati, appunto – pochi oggetti: un elmetto, un pastrano, un fucile o un mitragliatore alla mano, ma anche la fisarmonica, a caratterizzarne l’identità. E poi quel teatrino – un po’ autocitazione, un po’ satira della propaganda -, che torna in scena; a significare – ogni volta – un esercito quasi senza bandiera, perché accomunato, sotto ambo i fronti, dalla medesima fragilità umana offesa.
Ma soprattutto lui, Guido Ceronetti: il vegliardo, che – in barba, quasi, ai suoi quasi novant’anni -, non rinuncia a stare sul palco; né desiste dalla fatica anche fisica di abbandonarlo – perché è evidente che è lì, che batte il suo cuore -, quando il pudore lo spinge dietro alle quinte, di fronte all’abbraccio carnale fra la crocerossina e il ritrovato innamorato mutilato – ferito forse ancor più ancora nell’orgoglio e nello spirito, che in quelle gambe anchilosate, che lo inchiodano alla carrozzella. Questi, alcuni dei delicatissimi tratti poetici attraverso i quali il maestro ha saputo parlarci della guerra: non per commemorarla, dunque, ma per ostracizzarla; libando alla vita, di fatto, pur nel ricordare il sinistro brindisi che dà il titolo alla pièce.
Così, pur seduto sulla sua seggiola ammantata di vermiglio – colore del sangue inutilmente versato, certo, ma probabilmente anche della passione indomita del testimone del tempo -, non rinuncia ad armeggiare coi suoi strumenti di sempre: la macchina da scrivere – il battere della quale si confonde, fin dall’inizio, col tambureggiare dell’alfabeto morse dei dispacci, ma anche con gli spari e gli scoppi della guerra -, un rudimentale megafono – il solo amplificatore conosciuto in un tempo così atropaico di fronte alle contemporanee ed istantanee diavolerie comunicative del web – e poi carta e penna; al suo fianco una solerte aiutante dal volto mascherato: inumano… E poi quell’idea degli oggetti: sono loro, non meno che i plastici ed intensi attori della Compagnia dei Sensibili, a raccontarci la storia; e sono ancora loro, a fine spettacolo, a venir riammassati – quasi laici ex voto – ai piedi di un crocifisso umano – troppo umano, per non riconoscere, nei suoi, i tratti di ogni uomo offeso dalla guerra. Uno spettacolo, quindi, che commuove e convince: per la chiarezza dell’idea di fondo, anzitutto – fin dal freudiano definirla ‘follia collettiva’ -, portata avanti con assoluta coerenza, pur declinata in una molteplicità non tanto di episodi, quanto di varianti: dal soldato al fronte, che scrive una lettera alla madre e intanto prega, sommessamente, e singhiozza – “come un uccellino divorato da un rapace” – al pianto ostenso delle donne armene; dal patriottismo eroicamente rivendicato di una Mata Hari a quello subdolamente imposto ai tanti militari mandati al fronte e per i quali l’eroismo era solo un “suicidio obbligatorio di massa”. Ma quel che convince sono anche le immagini semplici, le luci dirette, le musiche ben riconoscibili – e legate ai canti di guerra così come agli inni di quelle nazioni in nome delle quali molti erano partiti per il fronte -, giocate nella schiettezza dei quadri un po’ naif, felici nel restituirci immediatamente quelle atmosfere – e le atmosfere dei drammaturghi e registi, che per primi ce le testimoniarono.
Uscendo dalla sala, sento alcune voci sulla lentezza della rappresentazione: ma personalmente non sono d’accordo – al contrario credo che il nostro teatro debba riscoprirlo ed anche concederselo, il tempo di lasciare che l’emozione raggiunga e pervada il pubblico -; invece non riesco a scordare lo sguardo illanguidito dalla commozione del signore che mi sedeva accano e che, a fine spettacolo, guardando i fogli su cui avevo appuntato alcune note, mi dice: “Mi raccomando: ne scriva bene”.