Alberto Oliva Bis: “Il Sosia”, quando i fantasmi sociali prendono il sopravvento
Ci sono sincronicità, che non ti aspetti. Capita così che progetti, nati in momenti e a partire da sguardi decisamente differenti, all’improvviso convergano. Questo, in fondo, il curioso caso del pirandelliano “L’uomo, la bestia e la virtù” e de “Il sosia” di Dostoevskij, entrambi per la regia di Alberto Oliva.
“Il Sosia” ovvero quando i nostri fantasmi prendono il sopravvento
È una lunga e appassionata frequentazione con Dostoevskij, quella de I Demoni, compagnia teatrale del regista Alberto Oliva e dell’attore Mino Manni. Fra gli altri, ricordiamo spettacoli quali: “Il topo del sottosuolo” (da “Delitto e castigo”), “La confessione” (il capitolo censurato dei “Demoni”), “L’idiota” o quell'”Ivan e il diavolo” (da “I fratelli Karamazov”), in cui i ruoli quasi s’invertono: Oliva veste i panni dell’attore protagonista e Mino Manni, giocosamente agghindato negli abiti di un’enorme cameriera di colore, incarna il diavolo tentatore, che ne tira, quasi registicamente, i fili.Ultimo capitolo di quest’idillio letterario teatrale è “Il Sosia”, in scena al Teatro Franco Parenti di Milano dal 22 marzo al 10 aprile 2022.
La tematica, in fondo, è ancora quella del fardello gettatoci addosso dalle convenzioni sociali e dallo sguardo degli altri. Qui servita in salsa russa, viene riguardata dal punto di vista di quegli antieroi fatalmente travolti dalla storia, di cui emblema è il protagonista de “Il cappotto” di Gogol. Stesse atmosfere dei giochi sociali, che si consumano all’interno dei bureaux della macchina buro-cratica, con tutta la sua capacità d’insinuare i suoi tentacoli in qualsiasi aspetto della vita socio relazionale. Così l’aver o non aver risposto al cenno di saluto di Tizio o di Caio può fare la differenza nell’accettazione o meno all’interno del cerchio magico di quelli che contano – con tutte le conseguenze, reali o anche solo paventate, che ciò può comportare.
Sono più o meno queste, le temperie in cui si agita, egli stesso fantasma accanto al proprio fantasmagorico sosia, Jakov Petrovič Goljadkin. La regia di Alberto Oliva, fin da subito lo intrappola in una impattante e farraginosa macchina teatrale, certamente capace di rendere tutto il fastidioso e asfittico senso della sua fatica di stare in questo mondo. Goljadkin, infatti, è imprigionato (la prima scena lo mostra in modo inequivocabile) in un proprio mondo, in cui si sente sicuro. Lì è lui IL padrone. Eppure già compaiono i primi scricchioli… quali l’insubordinazione del “servo”, in una Russia ancora a tal punto garante di quell’istituto sociale, che Cechov, una cinquantina d’anni dopo, ne “Il Giardino dei ciliegi” metterà in bocca allo studente bolscevico Lopachin, parole quali: “Pensate, Anja: vostro nonno, bisnonno e tutti i vostri antenati erano possidenti, proprietari di anime. […] Possedere anime vive: è questo che vi ha degenerati”.
Così Jakov Petrovič sospetta di tutto e di tutti, in un vorticoso crescente delirio, che lo porta, in una delle ultime icastiche scene, a un confronto diretto con quel sosia – che lo domina e lo soverchia, sdoppiandosi e moltiplicandosi fino prendersi gioco di lui dall’ortogonale crocicchio delle sbeffeggianti pareti a specchio. È il trionfo della ragione sociale – o, forse, del cartesiano diavoletto maligno, che si prende gioco di ciascuno di noi, fino a confonderci fra sospettoso sogno e realtà.
L’importante allestimento messo in scena al Parenti, prevede un palcoscenico prospiciente, quasi poppa della nave della vita, spigolosamente puntato verso il pubblico. Soverchiati dalle altissime pareti a specchio, che troneggiano l’alto palco all’italiana della Sala AcomeA sigillandolo, gli spettatori passano dall’enfatizzata posizione di voyeurs a quella di quasi correi, nelle scene giocate nell’asfittico triangolo, che lo chiude severamente fuori dal pur ambito bel mondo. Nel mezzo è tutto un piegarsi e dispiegarsi di questa struttura, ora a ritagliare lo spazio angusto della carrozza, ora gli ancora più asfittici gabbiotti dei bureaux statali. Ancora, ancora e ancora… E, mentre sempre più il delirio s’impadronisce di lui, alle sue spalle sfilano le suggestive ma in fondo decorative immagini di una San Pietroburgo da cartolina o quelle degli scintillanti lampadari in cristallo di quel bel mondo, tanto ambito, quanto fuori dalla sua portata.
Eppure nulla di tutto questo riesce a segnare uno spettacolo, il cui punto di forza resta l’eccellente prova d’attore di Elia Schilton, ottimamente coadiuvato da Fabio Bussotti, puntuale e versatile, nello scivolare nei panni de tanti co protagonisti, che animano lo spettacolo. E se, nei suoi deliri di perbenismo, Jakov Petrovič arriverà ad esclamare: “La maschera me la metto solamente per le mascherate e non tutti i giorni davanti alla gente”, Fabio Bussotti, al contrario, sa vestirle tutte con eguale calibrato e distacco, le maschere dei fantasmi, che popolano le angosciose frustrazioni del protagonista… fino a calzare perfino quella dello stesso Petrovič, accuratamente disegnata da Ilaria Ariemme. Ma protagonista assoluto, non solo perché ne ricopre il ruolo, ma proprio per la generosità, versatilità, bravura, mobilità e genialità, quasi, resta Elia Schilton, la cui interpretazione da sola vale l’intera durata dello spettacolo.