Alberto Oliva Bis: “L’uomo, la bestia e la virtù” o del Gran Circo del mondo
Ci sono sincronicità, che non ti aspetti. Capita così che progetti, nati in momenti e a partire da sguardi decisamente differenti, all’improvviso convergano. Questo, in fondo, il curioso caso del pirandelliano “L’uomo, la bestia e la virtù” e de “Il sosia” di Dostoevskij, entrambi per la regia di Alberto Oliva.
“L’uomo, la bestia e la virtù” o del Gran Circo del mondo
Non è il primo approccio di Alberto Oliva con Pirandello. Già nel 2018, il regista si era cimentato con un “Il fu Mattia Pascal” dagli accenti a loro modo presaghi della cifra di questo allestimento.
Cast in parte sovrapponibile (Gianna Coletti, sempre nella parte della secondaria un po’ svampita, ma irriverentemente verace, e l’immancabile Mino Manni nel ruolo di primo attore), in questo “L’uomo, la bestia e la virtù” si torna a giocare coi linguaggi del teatro. Non più i timidi affondi di quattro anni fa (ricordiamo la sequenza narrativa della seduta spiritica, oniricamente resa attraverso un suggestivo teatro d’ombre), ma un’idea netta e ben precisa, scelta e portata avanti con coerenza. Così in questo spettacolo, andato in scena a DeSidera Teatro Oscar dal 29 marzo al 2 aprile 2022, il triangolo fra i protagonisti ci viene raccontato attraverso la metafora incarnata del circo. L’uomo ovvero il Prof Paolino, ad onta del suo ostentato perbenismo, intrattiene una relazione clandestina con una donna sposata; presto vestirà i panni del domatore di circo a esplicitarne il ruolo di manipolatore, affinché si arrivi ad una gattopardiana soluzione in grado di serbare lo status quo. La bestia ovvero il Capitano Perella, brutale e scorbutico marito, tanto spesso fuori città, da aver instaurato una vita parallela, con tanto di nutrita prole illegittima, nel chiozzotto, giocoso e icastico prologo viene vestito coi panni dell’orso bruno. In fine La virtù, la Signora Perella, madonnina infilzata, quasi santino di purezza, viene presentata come una scimmietta ammaestrata, nelle mani dell’amante, ad ostentare doti da Madame Sans-Gêne, per strappare al renitente marito quei doveri sponsali, in grado di legittimare la sua sua gravidanza illegittima.
Questo il plot. Oliva lo trasla sul palco in maniera in fondo assolutamente fedele all’intenzione dell’autore, se vero è che, alla prima rappresentazione (Milano, Teatro Olímpia, 2 maggio 1919), il malcontento del pubblico fu causato proprio da quei toni farseschi e scollacciati, che mai si sarebbe aspettato di trovare in un testo di Pirandello. Eppure la tematica è inequivocabilmente pirandelliana – con quel suo ironizzare e riflettere sulla polimorfica rappresentazione della realtà, tanto più quando sia complicata dall’apparente inscalfibilità delle convenzioni sociali.
Così anche qui la cifra accarezza quella della tradizione del teatro popolare d’avanspettacolo, grazie anche ai due interpreti dei ruoli minori: il baritono Angelo Lodetti, protagonista di un’ironica aria sulle pretese virtù delle donne, oltre che generoso interprete di Nonò (il figlio legittimo dei signori Perella, ragazzetto di 11 anni nella scrittura pirandelliana), qui reso attraverso un gigantesco capricciosissimo astuto bimbetto alla Gianni Fantoni, che non può non innescare il corto circuito del comico. E poi Andrea Carabelli, dalla schietta tecnica e mimica circensi, capace di regalare uno sprint di assoluta godibile ilarità ai suoi personaggi. Non da meno Gianna Coletti, dalla solidissima esperienza teatrale, al punto da risultar capace di sdrammatizzare senza per questo banalizzare: qui, nel sottolineare la condizione della servitù del tempo (lascia sbigottiti il trattamento riservato all’epoca al “personale di servizio”), ma, ancor più, nel suo progetto “Mamma a carico. Mia figlia ha 90 anni” – libro, film e spettacolo teatrale, dove riesce a raccontare con leggerezza, ironia e un pizzico di commozione la fatica e le mille sensazioni del cargiver.
E poi il trittico dei protagonisti. Riccardo Magherini è magistrale nei panni di Capitan Perella: incurante delle più basiche regole del vivere civile e costantemente giocato sul filo dello spiazzamento, coi suoi repentini cambi di umore aderisce perfettamente alla cifra dei matti, di cui traboccano i testi pirandelliani. Rossella Rapisarda, attrice dal garbo onirico e delicato (indimenticabile la sua “Nina”, monologo d’ispirazione cechoviana sulla vocazione attorale, o “Senza filtro”, in memoria di Alda Merini), qui viene prestata ad una commedia sfacciata, che mette alla prova la sua versatilità attorale. Così, soprattutto nella scena dell‘imbellettamento riesce a far risaltare tutta la fatica, lo iato e lo scollamento fra quell’essere e apparire – o essere e dover essere –, che è costante cifra della denuncia pirandelliana. Non solo nei confronti delle convenzioni sociali, ma in maniera ancor più silenziosamente struggente, della condizione delle donne, riesce a lasciar trasparire l’essere ancor più soggiogate in una trappola, da cui solo l’astuzia – o la follia – può, in qualche modo, a liberarle. Dulcis in fundo, come in tutte le produzioni de I Demoni – con cui fa compagnia con Alberto Oliva ormai da anni -, protagonista è Mino Manni lui pure impegnato in un ruolo giocoso da commedia all’italiana. Voce di testa, come si dice, e contegno ostentatamente farsesco, è il gran burattinaio in scena, a tirare i fili di questa commedia, che non lesina spunti di riflessione, a chi vuol vederli.
Uno spettacolo, quindi, capace di acchiappare un’idea registica, portandola aventi in modo coerente, grazie anche alle ben curate scene di Francesca Ghedini e agli efficaci costumi di Alessia Di Meo. Certamente un lavoro capace d’intrattenere il pubblico, regalandogli un’inedita versione di quel sottile denunciatore che fu Pirandello. Forse, unico appunto: chissà che, affondando un po’ di più, non si sarebbe potuto portarsi a casa un esito ancor più esilarante – e, quindi, a suo modo, catartico ed efficace.