Annalì Rainoldi e l’intensità del suo mancato show
Quarto spettacolo vincitore del Bando Amapola, a FE Fabbrica dell’Esperienza l’11 e 12 settembre va in scena “This is not a show” di e con Annalì Rainoldi. Si tratta di una partitura fisica – sostenuta in modo eccellente dalla performer – per mostrarci, in meno di un ora, la tesi – leggiamo dal foglio di sala: “L’autoinganno è un meccanismo utile e necessario alla sopravvivenza. L’uomo è la sintesi di cinismo e poesia nell’attuare piccoli inganni quotidiani. ‘This is not a show’ è una fenomenologia dell’essere umano sospesa tra realtà e meraviglioso luogo rifugio dove poter essere ciò che si desidera…”. Ed è quanto mai azzeccato che, per parlarci di questo, si scelga una modalità espressiva quale il teatro danza – che, tacendo, per sua stessa natura, offre il fianco a quella non verbalizzazione, che più facilmente può lasciarci crogiolare nell’auto illusione.
Oltre all’idea, qui – come si diceva -, una partitura fisica fatta di gesti misurati, studiati, modulati e porti al pubblico con una precisione ed un total control senza sbavature. All’interno di un ideale ring buio, infatti, assistiamo al risvegliarsi di una creatura anonima – la testa imprigionata nella maglietta che avvolge il volto… sorta di omaggio al “Bacio” di Magritte -, di cui sono illuminati solo i piedi e la fatica – questa sì – ben restituitaci da movimenti di risalita, ma che puntualmente riprecipitano all’abbandono dell’inerzia iniziale: come di fronte ad un compito inarrivabile. E l’intera performance è connotata dalla cifra della fatica, della titubanza – movimenti che si ripetono… che regrediscono per poi tornare a crescere, quasi che la forza ed il coraggio non fossero mai a sufficienza di fronte ad un compito così intimamente sfidante. Ed in cui la ripetizione sortisce certo un esito di straordinaria efficacia.
In sottofondo la voce monotona di uno speaker inglese – come quello dei nastri di tante audio lezioni – a contrastare e far da contrappunto al desiderio – timido ma vibrante – di esplosione verso un quasi nietzscheano “Diventa ciò che sei!”. E poi tutto trascolora nella rumoristica mixata di una guerra – ben sottolineata dal mutar dei costumi: il volto, ancora una volta coperto, è nascosto da una maschera antigas, che sembra chiederci se proteggersi dallo scoppio delle mine esterne o se, invece, il reale pericolo non sia in quel desiderio conflagrante di espressione e realizzazione, che si alterna in gesti misurati e passettini scivolati per poi improvvisamente esplodere nella fisicità di movimenti esagerati per ritmo ed ampiezza. E c’è ancora spazio per la rappresentazione del come tu mi vuoi, nella scena classica di ricomposizione/riappacificazione – dopo essersi contaminata nel ritmo frenetico di una falsata musica disco, eccola nella sequenza della mancata ballerina classica, appena abbozzata, nel cerchio luminoso di una luce rossastra, accompagnata da una pacificante aria “700sca.
Ma in nessun caso c’è modo di spogliarsi della maschera: fino al paradosso di trovarsela disegnata – tatuata, quasi… – sul volto: imprescindibile velamento a se stessi… E quel gesto conclusivo del ‘su la testa’ – auto accompagnato: alla Munchausen… -, neppure quello, in fondo, riesce a cancellarlo del tutto, il travestimento dell’auto inganno.
E cosa resterà di tutto ciò? Forse – alla fine… – una presa di consapevolezza; o, quanto meno, la presa di posizione di chi, ricomponendo il quadro, gli si adagia a fianco, avvinto da un’alterità che ha imparato a riconoscere come tale. Di certo: il solipsismo di un mondo irrelato, che amplifica la lotta intestina fra il vorrei e il non posso, come se non ci fosse niente più niente (altro) al mondo.