Antonio Latella e la responsabilità pedagogica di forzare oltre il limite
Più che un’intervista, una chiacchierata sincera e rilassata, quella fra Antonio Latella e Claudia Cannella, tenutasi lunedì, 31 marzo a Campo Teatrale. L’intento era quello di far conoscere agli allievi delle principali scuole d’arte drammatica milanesi – Paolo Grassi, Filodrammatici, Faro Teatrale e la stessa Campo Teatrale, fra le altre – Antonio Latella non solo come regista del recente “Il servitore di due padroni” – in scena all’Elfo Puccini fino alla domenica precedente, a coronamento di una tournée semestrale -, ma anche nella sua teorizzazione di Pedagogia Teatrale, in concomitanza della Masterclass di tre giorni tenuta dal maestro presso la scuola.
L’impostazione scelta dalla Cannella è stata di chiede dell’Antonio allievo anzitutto: quali i maestri reali ed ideali, a cui riconosce di aver influenzato la sua formazione. I due riferimenti additati sono stati Franco Passatore (padre del Teatro Ragazzi e suo docente presso lo Stabile di Torino), incontrato quando, 17nne, pur non provenendo da una formazione, né da un ambiente sociale particolarmente attento al teatro, è stato fulminato da questa pulsione, che lo ha potato ad una tal scelta/elezione di vita, e Vittorio Gassmann, primo di una serie d’incontri senz’altro formativi, continuato con Castri, ad esempio – “Non so se sia stato proprio un maestro – dice di lui--: senz’altro una specie di università…”, data la precoce scelta di dedicarsi al teatro, dunque lontano dagli ambiti accademici in senso proprio -, da cui ha assorbito l’ossessione per gli autori, come l’ha definita. Fra i maestri ideali: Nekrosius , che lo ha folgorato per la sua capacità di essere astratto e simbolico eppure al contempo capace di una concretezza incredibile grazie alla densità fisica del lavoro sugli attori; e Vasiliev per la costante ricerca di un metodo, cosa che lo affascinava, da giovane, benché la sua pedagogia si sia poi evoluta nella direzione dell’ incontro col singolo, che ne è un po’ il superamento/negazione.
Di questa carrellata di maestri offre chicche sentite: la libertà ed intelligenza di un Vasiliev, che consentiva ai suoi attori di fare tutto quanto all’allievo Latella era stato insegnato da evitare; il tratto disarmantemente umano di un Gassmann che nell’ “accettare di aveva paura di salire sul palcoscenico rivelava una condizione estremamente libera” e liberatoria, specie per un ragazzo timido, un po’ balbuziente e con uno strano rapporto con la voce – scoperta attraverso la dizione: e poi consapevolmente tradita e dimenticata. “E’ il pedagogo a fare la differenza”, sostiene: “Se ti ho scelto, ci sarà un perché: non complicarti tu la vita…”, ricorda, rispetto alle perplessità per la sua insperata ammissione alla scuola di teatro. Il pedagogo è chiamato a “scardinare le proprie certezze ed anche quelle degli altri”, proprio per questo “deve avere il coraggio di esserci e non abbandonare il luogo: non per trovare soluzioni – sono poi l’allievo, il pubblico o il drammaturgo a doversele trovare in modo autonomo -, ma perché se si assume l’onere di fargli male – togliendogli la terra da sotto i piedi -, deve sostenere anche la responsabilità della presenza”.
Ci tiene, Latella, che come ha ricordato la Cannella, ha fatto l’attore per 14 anni (fino al 2000), firmando la sua prima regia solo nel 1998, a rivendicare la propria vocazione alla regia – “Ho fatto la scuola d’attore già sognando di fare il regista per imparare la grammatica direttamente nel corpo” – a sottolineare che “il regista che ha fatto l’attore ha una marcia in più: perché posso far vedere cosa intendo… non per imitazione, ma perché l’attore possa prendere quel che gli serve”: risorsa importante specie all’estero. Già, perché risiede a Berlino, Latella, dal 2004; in un Paese in cui “il Teatro non è di regia, ma di drammaturgia”. E’ il drammaturgo, cioè, che scegli gli autori da rappresentare, il modo di esprimerli/metterli in scena, la poetica e mette il regista in condizione di farsi capire; è sempre lui che, nell’ultima settimana prima del debutto, fa gli appunti di regia, affinché si possa dare il meglio: pur nello scontro – in tal senso ricorda i due differenti esiti della regia di “Trilogia della villeggiatura” e di Kafka, dove la differenza l’ha fatta solo la sua maggior convinzione nel primo anziché nel secondo caso.
Altra esperienza professionale e formativa fondante è stata la direzione artistica del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, che ha cercato d’improntare scrivendo per gli attori e per il momento, ma in un tempo probabilmente ancora non maturo per questo genere d’approccio. Quel che ne resta è stata la Compagnia Stabile Mobile, pensata come proseguimento costante ed ideale di quel lavoro/gruppo, che ha saputo dar corpo a pièce come ‘A.H.’, ‘Francamente me ne infischio’ e ‘C’è del pianto in queste lacrime’.
Modalità di lavoro fin da subito stabilita dalla Cannella è stata dar libero accesso alle domande durante l’intervista, quando il pubblico ne avesse sentita l’esigenza; ed è qui che gli vien chiesto, con riferimento alla sua compagnia: se il merito andasse ascritto all’eccezionalità – conclamata – degli attori di cui indubbiamente si fregia o se il merito fosse anche del regista/pedagogo e della sua capacità, maieutica, quasi, di saper tirar fuori da loro le potenzialità. La risposta è stata di un’umanità spiazzante: “Il regista deve sapersi circondare di persone incredibili e saperne sollecitare l’autorialità… Se non sono anche belle persone, non m’interessano… Il regista vive del talento degli altri: se ce la fa, ottiene grandi risultati”. E’ poi passato a ribadire le differenze specifiche fra regista, che ha a che fare con attori finiti, mentre il pedagogo con allievi, di cui “deve curare e tutelare il talento… focalizzare e mantenere viva la pulsione dalla quale è nata la scelta”.
Altra domanda: se sia così inevitabile destrutturare per poter ricreare, rispetto cui Latella ha fatto passare la necessità di far tabula rasa. L’esempio escusso è stata l’assunzione di responsabilità rispetto ad un ragazzo kazaco analfabeta, fatto crescere fino a consentirgli di sostenere uno spettacolo di 4 ore; scelta dettata non da un non meglio specificato buonismo, ma dall’assunzione di responsabilità, appunto, che passa anche attraverso il fornire gli strumenti del mestiere – contro la tendenza di molte scuole di non insegnare più la dizione… -, sia pure per poter poi scegliere di non adoperarli – “ma se non li hai, parti svantaggiato…”. Richiamandosi, poi, alla sua applicazione nell’andare – anche – a teatro, ha sottolineato quanto questo sia fondamentale pure per la critica: andare e sperimentare a 360° per potersi, ma dopo soltanto, creare un gusto ed un orientamento propri. Sempre nel senso dello scomporre, studiare, stare – di contro al performare – ha citato l’esperienza dell’ École des Maîtres al cui invito a partecipare ha acconsentito solo in seconda battuta – non sentendosene all’altezza, data la giovane età – e rispetto cui ha preferito imporre il metodo di non comunicare in inglese – ma ciascuno nella proprio lingua, inventandosi strategie differenti per superare lo scoglio dell’internazionalità – e di non subordinare il lavoro ad un saggio – che avrebbe inevitabilmente significato una formalizzazione del lavoro svolto -, ma una lezione aperta : scelta che lo ha ripagato, essendo, quello, l’unico gruppo che continua a portare aventi quel tipo di esperienza.
Altra domanda propostagli : quella riguardante il trittico andare avanti – “In che cosa ? Nella carriera o nel mestiere dell’attore che è volto alla propria crescita personale…” – l’umiltà ed il giudicare, il regista ha subito riportato il discorso entro i termini umiltà scenica – di cui può essere dotato anche chi umile non sia – e consiste nello “stare in ascolto a vantaggio dell’azione scenica”, di contro invece al giudicare – anche nel senso riflessivo del giudicarsi –, caratteristica spiccata negli allievi, ma che non consentendo di far errori, tarpa le ali anche alla scoperta e alla crescita.
E’ stato proprio ricordando la propria direzione artistica a Napoli – e rivendicandone – non senza un momento di commozione – la valenza pedagogica nell’educare il pubblico/creare nuovo pubblico, quale compito della direzione artistica, però, più che del regista – “Dobbiamo togliergli le certezze… metterlo in condizione di farsi male e di farci male, perché possa crescere… sennò lo abbiamo perso”.
Si è poi avviato ad un discorso di congedo, impreziosito da tutte le parole-chiave della sua pedagogia teatrale, in antitesi, quasi con la pedagogia delle accademie : “mettere gli allievi in condizione di correre e farsi male…”, “Confrontarsi con la loro fragilità ed arroganza…perché possono essere terribili, giudicanti, saccenti… e bisogna dirglielo che poi fuori non c’è lavoro o ce n’è poco… il teatro è una scelta di vita : in questo senso eroica!”. E ancora : altro è recitare, altro interpretare, altro ancora stare ; dove se i primi due termini parlano di quel jouer/play, lo stare, al contrario, afferisce all’essere in situazione, alla capacità di darsi continuamente dei limiti, ma solo per poterli continuamente superare – citando, in tal senso, la messa in scena di ‘Peer Gynt’ in Siberia. Dunque mettendo in crisi il metodo Stanislavskij, da lui visto come una dinamica di controllo, che, riducendo l’azione scenica ad un meccanismo rigido e prestabilito, sottrae alla scena la sua dimensione di luogo della creazione, sia pur nella variabile dell’errore. E a chi gli ha chiesto come fosse possibile conciliare l’apparente iato fra il fatto che, se il palcoscenico dev’essere un luogo scomodo – quello dell’errore, della sofferenza e della creazione -, per altro rispetto le sue regie sembrano delle partiture perfette, giocate all’interno di meccanismi, il maestro ha risposto che è nella libertà dell’atto creativo, paragonando i suoi attori a jazzisti chiamati ad improvvisare all’interno di una partitura: non per sé, ma per l’orchestra.
Ha, infine, ricordato le condizioni costanti ed irrinunciabili del suo mestiere : vedere – teatro, cinema, mostre… vetrine ?! – come premessa irrinunciabile, insieme allo studia l’autore, prima ancora che il singolo testo – in modo da lasciarsi suggestionare da quel metodo che l’autore stesso finirà con l’imporre – e scegliere l’attore, prima che il personaggio – nella consapevolezza delle caratteristiche/finestre, che quel dato attore potrà aprire sul mondo.
Questa un po’ la sintesi : “Il Teatro non lo si può insegnare, ma si possono creare le condizioni per poterlo imparare nel momento, in cui il maestro si mette nelle mani degli allievi, senza mai perdere la conduzione del gioco.” Si richiama ad un ben preciso senso di Responsabilità : “Tu fai parte del gioco, ma devi essere ì a tracciare delle regole per proteggerli e proteggerti”.