“Antropolaroid”: una Granata contro il determinismo
Ultima replica, questa sera, di “Antropolaroid”: spettacolo d’ouverture della ‘Retrospettiva Proxima Res’, che continuerà fino al 5 dicembre al Teatro Sala Fontana.
E’ stato assimilato al ‘cunto’, questo “Antropolaroid”- similmente narrazione-fiume atta ad ammaliare gli ascoltatori, raccontando di come, fra mille peripezie, alla fine il protagonista arrivi alla risoluzione del conflitto da cui era scaturita l’azione; e che riecheggia, anche nella parlata, delle storie dei ‘pupi’: secondo la più classica delle tradizione siciliane -; e molto si è scritto sulle capacità di Tindaro Granata, autore vulcanico e, qui, poliedrico interprete – meritatamente insignito di vari premi… -, capace di raccontarci la sua saga familiare con un candore ed una capacità di coinvolgimento tali da farci appassionare come alle vicende di una soap opera o della famiglia reale – non a caso, probabilmente, parlando dei nonni impegnati a ballare il ‘passo doppio’ ci dice: “Erano belli: come il re e la regina di Sicilia…”; e, ancora, pure nel ricordo del ‘debutto in società’ della nonna si parla della ‘città dai cento castelli’: a colorare di meraviglioso e di fiabesco un mondo che tanto poi lontano nel tempo non lo è… -. E, forse, è proprio questo, il punto di forza dello spettacolo – e, per metonimia, dello stesso Granata -: a vincere è il ‘candore’; quel candore garbato con cui si rivolge al pubblico, di tanto in tanto – voce narrante e guest star di se stesso -, per raccontare, raccordare o fare il punto sul procedere del ‘cunto’ – efficacissima, in tal senso, l’espressione iterata dalla ‘nonna grande’: “Come fu, come non fu…” -; quell’accorto e pudico candore, che spesso traspare dalle figure femminili – tutte ugualmente interpretate da lui: col semplice, ma efficace gioco del mettersi in testa il giubbino, per simularne il tradizionale fazzoletto o stringerselo attorno alle spalle: a mo’ di scialle… -, dotate di una dignità composta e fulgida, nonostante la loro condizione – spesso – di sottomissione: ai padri, ai mariti, ai pettegolezzi o ai pregiudizi, poco conta…
Così, nel suo trasformismo sempre preciso e misurato – senza mai scivolar nel macchiettistico, pur riuscendo ad evocare figure decisamente divertenti, talvolta, come gli irresitibili ‘za Peppina e zu Iasparinu’ o la stessa ‘nonna vecchia’ – ci racconta di un mondo a due dimensioni: un mondo di uomini violenti – perché storditi dal vino o perché reduci, loro nonostante, da un’epica ‘notte nera’ -, uomini, che picchiano le loro donne, – apostrofandole come ‘cretine’ per ogni nonnulla -, o che minacciano di uccidere qualcuno, se le cose non andranno secondo i loro desideri, ma che Tindaro sembra voler bonificare ed edulcorare – per lo più; unica eccezione le figure di uomini ‘potenti’: dal medico del paese, nel racconto del bisnonno ‘indotto’ al suicidio, a don Tano Badalamenti… -, ‘scusandoli’ per il loro essere naif, ascritto ad una sorta di ingenuità di ‘stato’; e, come contraltare, una corte di donne ‘forti’, a loro modo: capaci di una fermezza – vedi la giovane bisnonna rimasta vedova – e di una fierezza – vedi nonna – tutte siciliane; certo: “Natura non facit saltus” e, così, non fa meraviglia che la matrigna, che pur riesce a trovare la forza per dare alla figliastra quella stessa chance, che non era stata donata a lei -e che l’aveva portata a diventare una prostituta: per necessità-, non sappia, invece, redimere se stessa da una condizione di sottomissione ad un uomo, che, pur avendola accettata in casa come nutrice della figlioletta rimasta orfana, non ha mai voluto concederle d’esser madre, mantenendola nella sudditanza del suo esserne solo un surrogato. Un mondo che sembrerebbe essere segnato da un determinismo che sa ancor di Verga -“Ma allora è proprio vero – si chiede ad un certo punto il giovane Tindaro – che, chi nasce pescatore, muore pescatore?”, parafrasando lo stesso dubbio, scene prima sorpreso sulle labbra dei suoi avi –, ma che trova, invece, tutta una serie di Granata ‘indomiti’, sul suo cammino: dal bisnonno – con cui s’inaugura la saga -, che preferisce impiccarsi, piuttosto che arrendersi al destino di un male incurabile, al nonno – che se si piega alla ‘notte nera’ è solo perché non vuol capitolare di fronte alla situazione economicamente precaria, in cui versa la sua famiglia -, al padre – che emigra in Svizzera, a cercar non tanto ‘fortuna’, quanto ‘realizzazione’ – fino allo stesso Tindaro, che se decide di andare a Roma per far l’attore, ma non lo fa ‘per paura’, quanto, piuttosto, per ‘diventar meglio’ di quel che è. Anche se: la dice lunga quello squarcio – freudiano, quasi -…di regressione al se stesso bambino, che, cantilenando, sembra voler auto convincersi: “Io non ho paura: no, no!”. Un uso curioso – ed emozionale – quello che Granata fa del ‘fanciullino’: riproposto per differenti personaggi, forse ad empatizzare verso quegli uomini, i cui comportamenti adulti non sempre risultano altrettanto condivisibili; e che va nella stessa direzione di candore ed empatia, con cui tratteggia le figure più ‘deboli’: pietra angolare, in tal senso, la riuscitissima ‘nonna vecchia’ – sorta di cariatide portante: dello cunto e della famiglia Granata -, a cui è affidato il messaggio augurale, che, investe, in una sorta di ancestrale battesimo del fuoco, Tindaro della sua missione: “Tanta Gioia, Tanta Bellezza, tanta Fortuna, ma anche tanta sofferenza”, sembra predirgli l’anziata, a poche ore dalla sua nascita, in una sorta di magica assegnazione alla sua stella portafortuna. Ed è quel che poi accade: la decisione di partir per Roma per inseguire il suo destino – “La Sicilia è bella, ma la libertà è ancor più bella”- e l’incapacità di coinvolgere l’amico Tino (Badalamenti) in questo progetto salvifico – quanta poetica efficacia in quell’ultima ‘corsa’ della lampadina! La stessa che arriva, come un brivido, in scene altrettanto azzeccate, quali il ‘non racconto’ della ‘notte nera’ (con la musica, a farla da padrona) o quel drappo danzante (forse tenuto giusto un filo in più del dovuto), ad affascinare il pubblico, catturandolo nell’ipnotico volteggio della danza (e, subliminarmente) nelle spirali de ‘lo cunto’…-.