Atomica sublimazione dell’Amore
Il Bando “AMApola R-esistenze Creative 2014” s’inaugura con “L’amore delle pietre”, Famiglia Mastorna, liberamente tratto da “Quartett” di Heiner Müller – cinematograficamente reso in “Le relazioni pericolose” (1988): titolo fedele al romanzo “700sco, da cui i tre succedanei traggono spunto. Ma se la suggestione è quella del film, del romanzo o dell’allestimento da qui a breve al Piccolo, resettate tutto: perché questo amore di pietra è, anzitutto, l’incarnazione della regia – di Michelangelo Zeno supportata dalle evocative e raffinate coreografie di Bianca Migliorati.
Ci s’impiega un po’, ad entrarci dentro: perché quello che ci appare è l’ asetticità di un campo scenico scandito nella bicromia del bianco – che dal fondale/schermo viene avanti nel drappeggio leggero su cui si muovono i due attori – e del nero – le due pareti laterali: quasi ad isolare da qualsiasi contatto possibile con una dimensione reale. E poi ancora il rosso – del drappo che avvolge la vergine Volange, diventandone, poi, simbolico giaciglio sacrificale – e il verde – la luce che illumina l’altra sedotta: che si teme ‘verde e gonfia come un rospo’. Ed è una bomba che esplode: per implodere, poi; come l’immagine del fungo atomico, che per gli interminabili istanti iniziali – il tempo: un lusso che qui certo non manca il coraggio di prendersi… – troneggia proiettata sullo sfondo, mentre a poco a poco si anima – appena visibile ai suoi piedi – una figura rediviva: da the day after. Forse la personificazione di quel che resta dell’Amore. Presto si rivela essere: la Marchesa di Merteuil. Ed anche qui s’infrange un clichet: non la fastosa dama della corte di Re Sole, ma un essere ricoperto di polvere e con in dosso un vestitino stracciato; eppure quanta altera durezza in quelle stesse parole da cortigiana in declino, che non può che aizzare la lusinga di un sesso consapevole e violento o il fantoccio dell’intrigo, in alternativa, per apparire ancora seduttiva all’amante di un tempo. E poi la luce si spegne: per riaccendersi al lato del palco, dov’era fin’ad allora restato in ombra il Visconte di Valmont. Anche la sua apparizione ci sconcerta: tenuta in pelle nera – un biker, quasi, se non fosse per il vezzo seduttivo di un trench tenebroso – e con vistosi occhiali da sole, che immediatamente riecheggiano le parole di lei: “In amore i ciechi sono i più fortunati. A loro è risparmiata la commedia delle circostanze: vedono ciò che vogliono. L’ideale sarebbe essere ciechi e sordomuti. L’amore delle pietre.”: ed ecco spiegato il titolo. Lui inizia con l’intonare una canzone in spagnolo – chissà: la lingua della passione… -: “Non piangere… alla fine le pietre, Colomba, che […] ne sanno, le pietre, dell’Amore”. La tesi è tratta: due ex amanti viziosi – e vulnerabili: null’altro, in fondo, che due sassolini scagliati lontano dal un’orribile conflagrazione -, che sublimano quell’amore che li atterrisce, volgendolo in un sesso frenetico, promiscuo e senza apparente coinvolgimento. “Avete un cuore: e da quando? – lo provoca: “Il mondo muliebre dopo di me vi ha ferito? Dovrei amarvi? Non vi ho mai amato! Strofiniamoci pelle contro pelle.” Inizia così l’efficace e lento scorrere di questi due zombie – movimenti dalla lentezza estenuante, che costantemente li portano, di spalle, in direzioni ostinate e contrarie – in evidente ossimoro con quelle parole e con gli intrighi che stanno architettando complici. Uno scollamento: fra il peripatetico – lentissimo – deambulare dei due e la frenesia – concitata, quasi, ma bifasica: quando l’uno si accende, l’altra sembra cristallizzarsi nel suo guscio marmoreo… e quando è lei ad animarsi, lui si stereotipizza in un prototipo di plastica.
Non c’è Amore, meglio: nessuno dei due, infondo, può darsene chance alcuna. E così giocano – costante, l’allusione al teatro –, incapricciandosi di scommettere chi cederà o no alle avances del seduttore. Poco importa poi se a farne le spese sarà la giovane nipote della Marchesa – fresca fresca di convento e già promessa sposa – o l’integerrima Presidentessa – la potentissima Tourvella -, che pure soccomberà: in tutti i sensi. Quel che solo conta, sembra, è il vampiresco bisogno d’insozzare tutto e tutti: trascinandoli nella propria fragile bestialità. Interessante.
Interessante l’operazione per la quale si fa, di un romanzetto sulle prouderie e gli intrighi di corte, un sondino naso gastrico, capace di ridiscendere nelle viscere della passione e coglierne gli umori e le fobie. Così la riduzione drammaturgica fissa in primo piano i due protagonisti principali, senza paura di tagliare personaggi accessori – il promesso sposo della piccola Volange, ad esempio – e utilizza gli stessi due attori per interpretare anche le due donne sedotte: giustamente Maria Sara Mignolli per interpretare sia la Marchesa che la di lei protetta – la nipotina Volange – e Matteo Vitanza nel ruolo di Valmont, ma anche della Presidentessa – a dare un senso, finalmente, a quel vistoso rossetto che fin dalla prima scena gli trionfa sul viso, ma anche alla cecità, che li accomuna. Davvero degne di menzione alcune scene di sublimazione, in cui si riesce a volgere la brutalità passionale e psicologica in qualcosa di altamente intenso eppure reso nella lontananza fisica dei corpi: come se non fosse di fatto lì, che si consuma l’agone. E poi l’eleganza delle scene, la misura, il prendersi tutto il tempo per…; e l’innegabile bravura dei due attori: a tratti, l’incedere della Mignolli evocava il ricordo statuario di una Medusa. Tutto questo alla FE Fabbrica dell’Esperienza: stasera in replica.