Baliani e l’emozione problematizzante del teatro di post narrazione

Il “Focus Baliani”, il primo, nel suo genere, qui a Milano, si chiude, al Teatro Menotti, con “Una notte sbagliata”, per la regia dell’immancabile Maria Maglietta, Dopo aver ripercorso i cavalli di battaglia del suo teatro di narrazione, l’8 e 9 febbraio 2020 Baliani c’invita a questo primo parto di teatro di post narrazione, da lui stesso definito: “Una narrazione dove il linguaggio orale del racconto non riesce più a dispiegarsi in un andamento lineare, ma si frantuma, produce loop verbali in cui il Tempo oscilla, senza obbligati nessi temporali”.

In scena, un racconto in due tempi e a due velocità

Da un lato, infatti, parte della vicenda ce la racconta, suo malgrado, Tano. Senza alcuna intenzione consapevole, e come a volta fanno i pazzi, semplicemente lascia affiorare alle labbra il proprio sconnesso e rapsodico flusso di coscienza. Suo contraltare è lo stesso Baliani narr-attore, che, smessi i panni del matto – buono come un tozzo di pane, basta non toccarlo -, recupera il ruolo di narratore-onnisciente. È lui che ci racconta i fatti e si fa portavoce di tutti i protagonisti, svelandoci ciò che il balordo forse non riesce neppure a intuire.

L’ambientazione sonora come sinestesica co drammaturgia

L’ouverture è una partitura di latrati di cani e tamburi nella notte dalla sinistra eco brechtiana, in un buio perdurante, che emozionalmente ci sposta verso un qualcosa di allarmante e primordiale. Quel che ci compare innanzi, poi, è un uomo, la cui prossemica immediatamente svela il suo disagio. (Ci) racconta perché è dovuto scendere ai giardinetti col cane a quell’ora inusuale. Nel farlo, inevitabilmente schiude l’uscio del suo intimo dai tratti naïf, amplificato e proiettato sul muro attraverso scarabocchi infantili. Disegnare: l’unica azione ancora capace di rendere leggere quelle sue mani ingoffite e appesantite dagli psicofarmaci, si rammarica.

Tano fra disagio e lirismo naïf

È attraverso questa sorta di continua e cangiante word cloud di segni rubati all’Art brut, che ci racconta del suo mondo fatto di pastiglie di Zyprexa, del Dottor Pini del CPS e dei suoi consigli bonari, della vecchia madre appisolata tutto il tempo davanti alla tv, della sorella e della nipotina Margherita. Sono loro i soli a poterlo toccare, senza che la minaccia di una rete soffocante lo costringa a una reazione violenta. Parla così – senza filtri – del suo mondo a matita, popolato dai bimbi del parchetto – belli, perché ancora pieni di speranze – e dal lattaio, prepotente, invece, come il suo cane. Ma il suo tesoro più prezioso è Uni, l’amato pelosetto, matto come lui, e, come lui uni-co, docile e spaventato.
Commovente, lo slittamento antropomorfizzante, che gioca a confondere canile e orfanotrofio.

I poliziotti: la furiosa violenza della frustrazione

Dopo un così intenso e disarmante, ma misurato, affondo in Tano lo sbagliato, a Baliani basta raddrizzare la schiena, sfilarsi berretto e scaldacollo e guadagnare il deputato luogo del palco, a favor di riflettore, per riassumere il tono asciutto del narratore-onnisciente.

Lui sì che racconta la storia in modo consapevole e intenzionale; di più: ne esplicita testo, sottotesto, moventi reconditi, occasioni mancate e quelle che, invece, perseguite in modo quasi fatale e scellerato, portarono all’atto atroce e insensato. Nessuna enfasi e nessun J’acuse; al contrario, è un quasi pandemico All you need is love a risuonare fra le moltissime finestre sonore, attraverso cui Mirto Baliani crea suggestioni d’atmosfera.

Nessun semplicistico giustificazionismo

Non cerca il nostro contatto visivo, il narr-attore, perché non cerca assenso, né consenso. Quel che sembra premergli è capire le ragioni recondite di quella piccola storia ignobile, per dirla alla Guccini, ma che, come sempre nel teatro di Baliani, assurge a dignità di exemplum e caso concreto su cui riflettere. Così, la luce sparata, di sguincio, in pieno volto esplicita il suo volontario mettersi sotto accusa, auto immolandosi, quasi cristologicamente, a una causa comune.

Né ci guarda mai negli occhi Tano, perché non è a noi che sono rivolte quelle parole, ripetute fra sé e sé, quasi a farsene una ragione – o, forse, a cercare la ragione dello sprofondo del suo essere sbagliato. Eppure, quanto ci toccano nell’intimo! Ricorda da vicino Luciano e gli altri matti di Danio Manfredini, Tano: stessi straniamento e aderenza mimetica dell’attore al personaggio, ma, qui, persiste una prossimità al prosaico, che ricorda ancora la cifra del teatro di narrazione, pur sublimata in un altrove lirico.

La virata verso la realtà: pleonastica premura di un distinguo verità/cronaca

Impietose, si accendono, le luci, in sala, ad abbacinare occhi ancora lucidi di catartica e problematizzante commozione. La domanda sorge spontanea. C’era davvero bisogno di quel tocco di artefatta realtà? Non si poteva farci arrivare i contenuti delle risposte a quelle domande retoriche, attraverso il già perfettamente riuscito duetto fra l’in-coscienza del matto e la sistematica presa di coscienza collettiva delle parole del narr-attore/coro?

Poi le luci si smorzano di nuovo. Nel composto rito di deposizione del personaggio, Baliani adesso sembra voler onorare la memoria di tutte le storie sbagliate – compresa la sua, che ci consegna in un prezioso e generoso frammento autobiografico. Fatta di a-sincronismi e a-sincronicità, è la fatalità, pare, ad assurgere a solo capro espiatorio.

E, noi: tutti “assolti”? Tutti e ciascuno non singolarmente responsabili, appaiamo quasi solo il prodotto del riverbero di reconditi meccanismi antropologici, in un ipnotico e pacificante gioco di alloplastici rimbalzi senza fine. Eppure non credo fosse questo l’intento.

Quel che mi piace pensare è che, a un soffio dai settant’anni, Baliani riscopra la disarmante tenerezza dell’umano, la sua fragilità e lo scambievole bisogno di protezione e cura. Meglio: scopra un modo diverso, ma non per questo meno lucido, di raccontarceli. Scelga di puntare il dito verso il costruttivo astro di una salvezza comune, solidale, reciproca e laica, piuttosto che puntarlo contro un nemico pubblico, che forse finirebbe con l’unirci più sotto l’egida del branco che della civitas.