Il blu caffettare di Caryl Churchill by Bluemotion

Una sola data, mercoledì 13 giugno 2018, per “Caffettiera Blu” di Caryl Churchill, regia di Giorgina Pi, all’interno della rassegna estiva milanese “Da vicino Nessuno è Normale”. Uno spettacolo spiazzante. A portarlo in scena, il collettivo Bluemotion, da sempre legato all’esperienza artistica e politica dello spazio romano Angelo Mai, in prima linea nel portare la cultura tra i beni primari […] facendo leva su una rinnovata narrazione di lotta e offrendosi come una realtà capace di attivare un processo di riappropriazione dei luoghi, alternativo alla privatizzazione e alle liberalizzazioni del mercato […] testimoniando nuove forme di abitazione, produzione e gestione del Teatro. Si legge così nella motivazione del Premio Ubu Franco Quadri 2016. Nonostante questo, ancora solo qualche settimana fa è stato al centro di un ennesimo tentativo di sgombero: testimonianza del valore anche politico di una simile scelta artistica all’interno del festival milanese.

Chi è, invece, Caryl Churchill? Classe 1938, la drammaturga londinese è (iper)nota, nei Paesi di lingua anglosassone, per il suo stile non naturalistico, frammentario e surrealista, che la ascrive fra autori post moderni del calibro di Pinter. In questa “Caffettiera Blu”, il gioco è quello di destrutturare la lingua e la sua semantica attraverso una graduale e sistematica sostituzione delle parole con neologismi tratti da caffettiera e blu. Dall’iniziale e quasi accidentale interpolazione di un nome o di un ruolo – quasi lapsus, anche se tutti rigorosamente tratti dal prepotente e problematico lessico familiare, almeno in principio, si passa, appunto, al conio di verbi come bluare o caffettare, dal significato reso probabile, anche se non totalmente esatto, dal contesto. È un crescendo surreale che travolge tutto e tutti. Tracima la lingua, certo, ma anche anche il senso, i personaggi e le sottese relazioni, fino a sgretolarsi nei fonemi gutturali primigeni c e b, scomposti ed esplosivi, che dicono più che della semplice incomunicabilità.

Ma a cosa si applica questo marchingegno linguistico? La trama è altrettanto destabilizzante.

È una sorta di simil giallo psicologico, anche se manca il morto; o, meglio, poi si scoprirà che c’è, benché con tutta probabilità deceduto per cause naturali. Racconta del manipolatore Derek – impossibile inquadrarlo psicologicamente – e del suo ozioso trastullo di fingersi il figlio ritrovato, un tempo dato in adozione. Quel che ci fa stare scomodi è il graduale scoprire che si tratta di un gioco – in realtà l’ormai quarantenne Derek una madre naturale, unica ed effettiva ce l’ha, anche se ricoverata in una geriatria – e che viene reiterato ai danni di diverse donne. È lui stesso a rivelarlo: alla fidanzata, infastidita per questa truffa, racconta di aver coinvolto fino a cinque madri fittizie; e se anche in scena ce ne vengono raccontate solo tre – tratteggiate, ciascuna, con pennellate così essenziali, da farci ripercorrere i tratti salienti dell’ emancipazione femminile negli anni ’60/’70 -, non possiamo non chiederci, insieme alla sbigottita trentenne, cui prodest?

Ragioni economiche? O di quale altra natura?

Ma il punto non è questo: alla drammaturga inglese non interessa che l’aspetto linguistico e di denuncia – di certe dinamiche socio relazionali: della loro friabilità e connivenza -, al punto da farla sentire autorizzata a tralasciare un’indagine a tutto tondo dei personaggi, per mantenersi invece a un livello più superficiale e schematico, quasi brechtiano. Così ogni madre sembra essere la risultante cartesiana di quell’abbandono – sofferto o voluto, ma in maniera sempre più o meno consapevole, in un’epoca in cui Sai, ancora non c’era l’aborto (legalizzato), bisbiglia una delle madri – e il confronto fra questo incontro col figlio allora abbandonato e ciò che ne conseguirà nelle loro vite, frattanto reinventatesi per poter sopravvivere.

La regia sceglie di portare in scena tutto ciò, facendo incontrare/confrontare i personaggi nell’ideale ring di un corpo a corpo – a due, a tre o, in un rarissimo caso, a quattro – di Derek con gli altri personaggi. Il fulcro è un vecchio tavolo da cucina, che fa subito casa e in qualche modo famiglia: un tempo solido – chissà, forse come quell’istituzione –, ora ci si mostra segnato dalle tante vicissitudini. La luce cade a pioggia sui singoli combattenti, a bucare quella nebbia drammaturgica, che avvolge, in senso inclusivo, anche il pubblico e che forse vorrebbe, essere blu, ma non è; lo sono invece il vino o il bagliore che proviene dalle tazze fumanti, con tocco del tutto surreale. È tutto molto schematico e straniante: non è quella emotiva, la reazione cercata. Meglio invece una risposta esilarante – chissà se più dissacratoria o liberatoria -, complici i bisticci linguistici derivanti dal bluare e dal caffettare, che spostano il focus via via su un non senso, che ci libera dal confronto diretto con la densità umana: nostra e dei personaggi. Bravissimi, gli attori, messi a dura prova da quest’artificio, sfidante non solo a livello di dizione e memoria, ma anche d’intenzione: eppure ciascuno coerente nel modularlo col giusto distacco – ma poi anche con gli opportuni affondi – e con una prossemica consona alla propria parte.

Quindi un raro esercizio di drammaturgia contemporanea, di quella “alta” e che viene da Oltremanica.
A
datto a tutti coloro per i quali questo è ipso facto un valore aggiunto.