Che TIPI quelli di Teatro Magro!

C’è una compagnia, attiva a Mantova da ormai quasi vent’anni (i quattro lustri, per la precisione, scoccheranno nel 2019), dal significativo nome di “Teatro Magro”. Magri lo sono non solo nelle figure austere dei componenti storici – il regista Flavio Cortellazzi e i due attori/performer Alessandro Pezzali e Marina Visentini, rispettivamente anche Styling e Project Manager della compagnia -; magro è pure l’inevitabile allusione alle sfidanti condizioni, a cui da sempre il teatro espone i suoi adepti.

Flavio Cortellazzi (socio fondatore. Presidente, direttore artistico e regista), Marina Visentini (socio fondatore. Project Manager e attrice) e Alessandro Pezzali (socio fondatore. Styling Manager, attore oltre che autore dei ritratti)
Stefano Fornasini (tecnica e grafic), Vanessa Dalla Ricca (amministrazione e attrice/performer) e José Andrés Tarifa Pardo (organizzazione e attore/performer)

Oltre alla tradizionale attività di formazione, si distinguono per un capillare lavoro sul territorio di sensibilizzazione e formazione del pubblico: interessante, in termini di audience engagement e audience development, l’iniziativa PNP “Pubblico Non Privato”, attraverso cui spostano gruppi di spettatori, chiamati ad assumersi la responsabilità di una mini co-direzione artistica di quella che poi sarà la programmazione della loro stagione teatrale. 

Kati Gerola (marketing e comunicazione, performer) e Silvia Cortellazzi (comunicazione e grafica, attrice, performer)

Al proprio attivo la compagine annovera oramai una molteplicità di produzioni teatrali – performative, per lo più, com’è nella loro cifra -, che spesso si strutturano in variazioni sul tema. Così “Senza Niente”, che nel 2007 aveva come focus e sottotitolo “L’Attore”, successivamente è stato declinato anche nelle figure monologanti de “Il Presidente”, “Il Regista” e, ultimo nato, “L’Amministratore”; con “Opera Omnia” siamo già al terzo capitolo di una saga, che si è spinta ad indagare “C. Goldoni”, la “Disco” (music) e in fine lo “Stato dell’Arte”. Così non stupisce il concept di “Tipi”. Il sottotitolo recita: “Assolo teatrale sul concetto di corpo come involucro”

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È per l’appunto il tentativo di contestualizzare un termine così versatile quale tipi, che ha portato Cortellazzi a sceglierlo come sigillo di questo lavoro: giocato fra performance e non-teatro – al di qua di una finzione dichiarata eppure “sempre al limite della sacrosanta licenza di mentire”, ci tiene a precisare il regista -, affonda in un’indagine dei corpi talmente ossessiva, da non poter non sconfinare nell’evidenza della loro irriducibilità alla sola cosalità. Che significa? Significa che, mentre esegue azioni puramente fisiche in risposta ad ordini impartiti in modo asettico e senza un’apparente consequenzialità logica, quel che di fatto il performer fa è piegare la macchina, mostrando quella verità, che solo la stanchezza fisica può lasciar affiorare, una volta fiaccate le resistenze del controllo razionale. Così quel corpo, fin dall’inizio scelto per le sue peculiarità, poco a poco mostra come queste non siano solo il capriccioso frutto di randomiche variazioni estetiche, bensì epifania di uno specifico modo d’essere, in grado di trasparire solo attraverso il proprio involucro.

Il progetto si articola in tre fasi: anzitutto la scelta del candidato e poi due sole sessioni di lavoro prima di arrivare al confronto col pubblico. Il movimento è quello centrifugo e concentrico della goccia nello stagno. Se per i primi sei tipi la proposta è stata rivolta all’interno della compagnia/scuola (eccola, la goccia/innesto), poi la si è estesa all’esterno, rivolgendola anzitutto a persone prossime a Teatro Magro, che lo stesso regista ha individuato per i loro tratti esteriori di non convenzionalità; la prossima sfida – con call in chiusura il 15 settembre 2018 – è allargare a chiunque: e chissà se, come avvenuto fin’ora, la risposta sarà comunque di piena disponibilità e adesione.

Così, dopo un primo incontro in cui gli ignari soggetti vengono esposti alle asettiche sollecitazioni della voce fuori campo (giusto un paio di parole abbinate quali “corpo mente”, “corpo virus”, “corpo paesaggio”, “corpo macchina”, “corpo poetico” e via così, in una giaculatoria di oltre mezz’ora, al fine di ottenere una risposta a discrezione del tipo), il confronto/riscontro col regista, a sessione conclusa, inevitabilmente condizionerà quella successiva; poi finalmente l’esibizione in pubblico, “spesso una via di mezzo fra quanto sperimentato la prima volta e quanto ‘aggiustato’ per il secondo incontro”, racconta Cortellazzi.

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Già, ma qual è la mappa mentale che si nasconde dietro alla griglia di comandi che stanno dietro a questa social specific performance? Il comunicato stampa rammenta che “Un ‘tipo’ è un’impronta, un carattere, una figura, un modello, un esemplare. […] Schema umano al quale può condursi una moltitudine di soggetti. Un tipo di bellezza. Un tipo originale. Un tipo qualsiasi. Siamo fatti di materia, di carne prima che di sentimenti”; eppure poi prosegue spiegando come: “TIPI è una griglia di comandi di cui Teatro Magro si serve per creare una situazione, isolando il soggetto scelto”; e ancora: “Il TIPO è un rappresentante del genere umano e come tale viene mostrato” per finalmente concludere: “Il tipo può avere valenza solo se disciplinato, se strutturato in un sistema di ordini”.

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Cosa ci raccontano queste tre diverse modulazioni rispetto alla definizione d’apertura? Anzitutto dell’irriducibilità dell’individuale all’universale, del soggetto scelto alla categoria entro cui s’immaginasse di poterlo incasellare; secondo, poi, che è proprio in questo singolo – e nella sua irripetibilità -, che traspare e riluce questa come caratteristica distributiva – di tutti e di ciascuno -; e, da ultimo ma non ultimo, il sopravvivere di una concezione del regista-burattinaio (siamo certo in ambito performativo, eppure ancora in una logica di teatro di regia, a suo modo) ovvero di colui che è chiamato a disciplinare ab aestrinseco: concezione quasi sconvolgente, se pensassimo a Teatro Magro come in qualche modo a un collettivo.

La cosa davvero coinvolgente è assistere a come ciascuno dei performer declini se stesso; proprio per questo è certo più interessante poter fruire di una batteria di tipi, se non addirittura di una vera e propria maratona. È stupefacente vedere questi personaggi dalla prossemica talvolta bizzarra e quasi stereotipata, pur all’interno di un non-canone freak, passare da lapalissiani istrionismi ad uno svelamento dell’anima e delle proprie paure/fragilità, che forse era quel che men ci si sarebbe attesi da un simile esercizio di sperimentazione socio-antropologica. Così capita al tipo 22, ad esempio, che già si presenta in scena vestito con pantaloni, giacca e tanto di fiore scarlatto all’occhiello, ma calzando incoerenti sandali e, a vista, pedalino bianco di teutonica riminiscenza: all’improvviso si svela – così fan tutti, verrà da chiosare, ma con un brivido di verità e senz’ironia alcuna -, nell’ultimo atto di questa prova; capita così anche al tipo 6, allievo di Teatro Magro e perfettamente inquadrabile nello stereotipo unconventional dell’allievo-attore disposto a mettersi davvero a nudo, pur di dimostrare la sua integralità alla causa.

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Sembra parlarci anche di una certa se non crudeltà quanto meno dis-empatia di matrice artaudiana, quell’insistere della voce fuori campo, imperturbabile nello sgranare comandi, nonostante la scaletta delle azioni torni a soffermarsi sul rituale: “Come stai?” e la cura della macchina scenica preveda il comfort di luci schermate e di una situazione certo non volta all’accanimento. Ascoltami, mantieni il ritmo, cammina, seduto, corri, stai fermo, bevi, in ginocchio/in piedi, mangia, salta, pungiti, coricati, fianco sinistro, pancia in giù, fianco destro, pancia in su… fino alla richiesta simil scientifica, ma dalla eco quasi feticista, di conservare dei campioni biologici del soggetto in esame, che per tutto il tempo non ha altra via di fuga se non quello spazio del rifiuto – un cantuccio ricavato in fondo sulla destra -, che gli vien detto potrà proteggerlo una volta soltanto.

Campionatura dei prelievi biologici e spilli (comando: “pungiti”)

Eppure una volta fiaccato il corpo, quel che ne vien fuori è lo spirito (lirico, sì, ma altre volte ironico, spiazzante o provocatorio). Spesso svelato e intonato proprio alla voce preghiera del corpo, appena prima di indossare la maschera, è lì che davvero ciascuno riesce a mettersi a nudo: e chissà che non sia proprio questo mostrarsi senza vergogna e, a tratti, anche senza coscienza, il vero spogliarsi.