Chi è il gigante Golia? Gide, Saul e la necessaria rivisitazione dell’epos
Ci sono storie, che travalicano di bocca in bocca, acquistando, ogni volta, una nuova sfumatura. Quasi che, al culmine di ogni picco, non ci fosse altra via che cambiare almeno in parte pelle – per dar nuova vita e fiato al loro cuore gettato oltre l’ostacolo -, ci son storie che, loro pure, si snaturano – o così parrebbe –, affinché la loro araba fenice possa riprendere forma e tornare a volare.
È un po’ questo, quel che accade in “Saul” di André Gide: una giravolta in più, nel riadattamento del giovane regista Giovanni Ortoleva a quattro mani con Riccardo Favaro
La storia di Saul è quella del primo Re di Israele. Scelto e amato dal Signore, perché colmo dello Spirito di Dio, divenne improvvisamente triste, in quanto uno spirito cattivo si impossessò di lui.
È qui che entra il gioco David. Chiamato a blandire, con tanto di cetra, l’umor nero del sovrano, si rivelerà tanto migliore di lui, da riuscir a sconfiggere il gigante Golia e, alla guida dell’esercito dei Filistei, a sottrargli il potere.
C’è tutto l’epos delle grandi storie omeriche, in tutto ciò.
E se, alla greca hybris di Agamennone, qui si sostituisce quella melanconia, che altre volte abbiam visto affiorare nei grandi personaggi biblici – da Giobbe a Qoelet -, omerica è pure la suggestione del delicato amore omosessuale fra il giovane David e Gionata, figlio di Saul, che riecheggia quello fra Achille e Patroclo o fra Eurialo e Niso.
Così il respiro si fa ampio e profondo. In una cultura sempre più globale e liquida come la nostra, sembra quasi cercare un radicamento in ciò che di più primigenio e strutturale costituisce l’uomo occidentale. E l’eco si fa tragica e dalla densità shakespeariana.
Quel che vediamo in scena è la trasposizione di queste figure paradigmatiche in una realtà assolutamente contemporanea.
Re Saul è un frontman annoiato e in declino. Ormai rintanato in un albergo, sorta di torre eburnea, da qui svogliatamente gestisce quel che resta della sua gloriosa carriera. Lo vediamo irrimediabilmente affondato in un’enorme poltrona, gli occhi vuoti e quel sottile mal di vivere, che lo rende al tempo stesso svogliato e irascibile. Accanto a lui, il figlio Gionata. Quasi cavalier servente – e quanti, non più giovanissimi, al giorno d’oggi, non si riconoscono in questo compito accudente dai ruoli invertiti? -, cerca di accudirlo al meglio, pur non rinunciando del tutto alle sue ambizioni personali – che, però, miseramente si scontrano col suo puntualmente strumentalizzato status di figlio d’arte.
I primi – velocissimi – quadri dello spettacolo altro non sono che la riproposizione dell’ormai consunta dinamica padre/figlio. Uno schermo televisivo, voltato a favore del pubblico, mostra, a loop, i fotogrammi di un film, in spagnolo, sul racconto biblico; nel contempo, in scena, la ripetizione di una dinamica, in cui la star ha perso ogni interesse. A stento chiede cosa sia quel rumoreggiare che proviene da fuori. E poco conta se sia l’eco di una manifestazione o il vociare dei tifosi di una squadra di calcio. Tutto è uguale, indifferente nella sua totalizzante apatia.
Solo elemento di “novità” sembra essere l’attesa del ragazzo. Ironizza, Saul, su questo modo di chiamare, da parte del figlio, quello che di fatto è un suo coetaneo. Eppure sarà proprio lui a dare uno svolta, seppur tragica, agli eventi, innescando effettivamente vis all’azione drammaturgica.
Nella riscrittura, David è un giovane musicista, mandato dall’impresario per dare una ventata di novità all’ormai stanca produzione del frontman. Terzo elemento della consumata liason-à-deux padre/figlio, David irrompe con la freschezza di una giovinezza ignara delle amarezze e dei meccanismi dello show business – e, di fatto, di ogni dinamica di potere, che, a sue spese, però, imparerà di lì a poco.
È qui che l’impianto si fa al tempo stesso favolistico eppure destrutturante e anti narrativo.
Già perché questo giovane, a cui la regia fin da subito offre un colore nuovo e per nulla stereotipato – a differenza degli altri due personaggi -, diventa al tempo stesso elemento di realtà e di verità.
Suoi, i pur minimalistici racconti su cosa realmente accada fuori dal “castello”; sua, l’intuizione che il gigante Golia, la cui ombra ottenebra il regno, in realtà altro non è che il frutto delle paure del popolo, cresciute a dismisura per l’effettivo abbandono del suo sovrano. Eppure tutto questo ci viene raccontato attraverso le didascalie dei racconti di Gionata, che, rafforzato dall’amicizia con David, finalmente trova il coraggio di assecondare la sua vocazione alla scrittura. Riaffiora l‘uso dei microfoni, a scandire, nella narrazione, i personaggi dal loro alter ego mitico favolistico. E tutto si fa amplificato e concitato anche per l’uso della ripetizione, in climax, in cui volume e velocità crescono in modo esponenziale e strumentale al coinvolgimento/stordimento del pubblico.
Colpisce, la trasposizione scenica, capace di mixare mito e realtà, favola e verità, affondando il fendente in questioni sempiterne.
Una riflessione sul rapporto padre/figlio – quando i ruoli s’invertono –, sul tentativo di emancipazione dai padri – anche in senso traslato -, su cosa siano davvero i demoni e su come nessuno sia mai davvero al riparo da quei meccanismi di potere e compromesso, che pur tutti abbiamo fieramente disdegnato, in gioventù. Più marginale, ma solo per la delicatezza con cui è trattata, che per l’importanza nel racconto, è la questione omosessuale: che, pure, fu cifra scarlatta del Premio Nobel André Gide.
Colpisce la mano ferma di una regia che, pur nella ripetizione di stilemi appresi dal maestro Latella, sa calibrarli e usarli, così da a far pervenire tutta l’urgenza e necessità di raccontare una storia simile.
Ferma risulta anche la direzione degli attori assolutamente adeguati: sia i giovanissimi Alessandro Bandini/David – visto già ne “La tragedia del vendicatore” di Thomas Middleton drammaturgia e regia Declan Donnellan, al Piccolo Teatro di Milano, alla cui Accademia si è pure diplomato -, che Federico Garigli – un Gionata capace d’impersonarsi a tal punto nei turbamenti del figlio del Re, da commuoversi fino alle lacrime -, che Marco Cacciola, come sempre in grado di modulare in modo nitido, e a tratti ipnotico, gli umori e i repentini scatti di un personaggio complesso e sfaccettato quale un sovrano al suo tramonto.
In scena, al Teatro i di Milano, fino al 25 novembre 2019.