Cristina Crippa e quella performance dell’anima fra les feuilles mortes
Le storie, che iniziano in minore, spesso sono quelle, che rischiano di portarci più lontano: così “La numero 13” di Pia Fontana, in scena al Teatro Elfo Puccini ancora solo fino a sabato 29 aprile 2023.
Bianco… accecante?
Quel che colpisce, entrando in sala, è lo strepitante candore. Muri bianchi, sedie bianche… “Tutto bianco: nessun colore è ammesso qui”, avrà poi modo di commentare la protagonista. Mimetizzata in tanto scolorito pallore e addossata alla parete di fondo, una barella da corsia – ugualmente bianca.
Bastano questi pochi elementi per intuire la direzione… ma non si fa in tempo a razionalizzarla, che arriva in scena lei, Cristina Crippa, a sparigliare i giochi.
In mezzo a tanto – raggelante – biancore, è lei l’elemento vitale e d’antitesi: abiti scuri, capelli color porpora ed uno sguardo vivacissimo, acceso da un contorno occhi, che li fa smodatamente grandi e inevitabilmente accusatori. Ed è probabilmente questa felice intuizione di presentarcela, anche cromaticamente, come nota stonata e stridente, a lasciarci, ancora per un poco, nella confortevole posizione di chi crede di aver, tutto sommato, intuito il gioco – amplificando la stoccata finale.
Una storia da niente
Ci racconta una storia da niente. Farfuglia di passeggiate al Monumentale e di quanto la cosa la stanchi-e-la-diverta, inaugurando quella modalità dell’endiadi, che si fa cifra dell’intera narrazione.
Ironizza di fronte alle visioni – grandiose e al tempo stesso grottesche – di uomini e donne morti, eppure “così in carne, da morti, da sembrare più vivi di quand’erano vivi”. Non minore arguzia, parlando di sé: “una vecchia”, si autodefinisce, che deve sembrare una scema… – e, poco dopo: “una matta!” -, agli occhi dei guardiani e dagli extra comunitari all’entrata, dal tratto un po’ losco, “perennemente infreddoliti, perfino in estate, quasi che il nostro sole non li scaldi mai abbastanza”, stiletta. E in questa sorta d’istrionico museo delle cere a cielo aperto, la sola cosa che pare offrirle conforto è la lunga sosta davanti alla tomba numero tredici. È qui che smette di ridere e si rilassa – racconta – di fronte all’angelo azzurro dalle ali, un tempo, dorate, che, pur avendo perso la testa, col tempo, e le braccia, definisce, con lemma predittivo, di una bellezza non a caso insostenibile.
Mentre racconta, è la stanchezza, che la getta, sfinita, sul lattiginoso giaciglio. Eppure il suo spirito curioso e quasi naïve, graffiante, anticonformista e ultimamente indomito, si fa pungolo e non la lascia stare, obbligando, lei, vecchia, al compito – “Faticoso, ma non impossibile!”, prova a darsi coraggio – di ridipingere l’intera stanza di giallo. E se anche lo sa che le costerà caro – “La reclusione!”, dice -, nonostante tutto, sembra costringerla una qualche arcana compulsione e così lei non può farne a meno…
Una performance dell’anima
In fondo si potrebbe definire così questo monologo: un gioco prismatico, che, scomponendo le parole in gesti e i ricordi in azioni, fa di uno molti, per poi ricomporre le endiadi in unità, fino al granitico cuore di una verità così insostenibile, da non poter irrompere che inaspettata. Ed è generosissima, Cristina Crippa, e instancabile, nel non dar tregua a quel suo corpo segnato dalle lune, probabilmente non diversamente da quello della protagonista. Colorare, dipinge, si sporge a fil di pubblico, per poi rintanarsi dietro alle quinte; e poi, di nuovo, si arrampica su insidiosi trabattelli per poi lasciarsi cadere a terra, stramazzando al fin come solo corpo morto cade.
Quanto ha, questo personaggio, di tante donne non rieducsbili, della meriniana piccola ape furibonda e di una Medea in sordina. Apparentemente, nessun figlio, attraverso cui compier vendetta, qui – e, in fondo, nessuna vendetta da compiere -; solo il rivendicare la legittimità della sua scelta di una maternità di opere, di contro a quella maternità di figli, normalmente imposta imposta dalla società. È così che in lei rivivono tutte le grandi artiste – da Saffo a Ipazia, da Artemisia Gentileschi a Virginia Woolf, Simonne de Beauvoir o la Yourcenar , solo per ricordarne alcune -, madri di figli-cose ergo duraturi.
Come feuilles mortes
Nella penna della Fontana, le foglie gialle dei tigli del Monumentale o le foto ingiallite, estratte da generose e accoglienti tasche/ventre di marsupiale, sono come nietzscheani biglietti della follia. È così che la Crippa scompagina, in un misto di candore, stupore, sagacia, follia, arguzia e accorata lucidità, i pezzi di quel singolarissimo puzzle, che solo attraverso il pianto – del personaggio o del pubblico, in fondo poco conta, in ogni perfetto transfert catartico – può sciogliersi e risolversi in rugiada, per dirla con Amleto. Di certo, questo “La numero tredici” di Pia Fontana, un testo prezioso, per la scelta e la precisione delle parole, figure retoriche, evocazioni e allusioni sempre nella eco dei rimandi interni, oltre che per la sapientissima capacità di creare un arco narrativo avvincente, in grado di accompagnarci pressocchè ignari verso un finale così spiazzante. Non di minor caratura, come si diceva, la performance della Crippa, della stessa sentita, modulata e ferma delicatezza di quella in “Lola, che dilati la camicia”, diretta, qui, dalla mano discreta – e per ciò stesso valorizzante – di Elio De Capitani, che non lascia nulla al caso.