“CUORE DI CAN-AGLIA” E LO SPETTRO DELLA OMOLOGAZIONE
Dal 22 gennaio al 10 marzo 2019 al Piccolo Teatro di Milano, Teatro Grassi, è in scena un classico della letteratura russa novecentesca: “Cuore di cane” di Michail Bulgakov.
Liberamente riscritto per il teatro da Stefano Massini, mette in moto sinergie che sposano la regia di Giorgio Sangati (giovane, ma dalla solida formazione ronconiana) con la performance di attori non meno canonizzati quali Sandro Lombardi, Paolo Pierobon e Giovanni Franzoni, oltre che Lucia Marinsalta, Bruna Rossi e Lorenzo Demaria. Quel che ne scaturisce è un allestimento convenzionale – come ci si aspetterebbe -, eppure con uno smalto che fa la differenza.
La storia è quella di un fantascientifico trapianto ipofiseo dal corpo di un giovane uomo in quello di un cane in là con gli anni. L’intento, quello di testare la possibilità di ringiovanimento, estrema frontiera della medicina – “Non più fisiologi, ma fisiocrati!”, delira, l’invasato Professore. Siamo nel 1925, anno di pubblicazione del romanzo, sì, ma anche anno a cui costantemente ci richiama la cronistoria del diario clinico, reso, a due voci, del Professor Esimio Filip Filipovič Preobraženskij/Sandro Lombardi e del suo assistente, Dott Bormental/Giovanni Franzoni.
Era il periodo in cui la Scienza Moderna credeva fermamente in sé – quasi in una sorta di delirio eretico e narcisistico, splendidamente restituito, in scena, dalla parodia liturgico-tabernacolare dell’incipit dello spettacolo – e forte era la lusinga superomistica, che, fraintesa e strumentalizzata, avrebbe devastato il Secolo Breve, e non solo… Sul versante letterario, impossibile non lasciarsi accarezzare dalla eco di “Frankenstein”, scritto da Mary Shelley oltre un secolo prima e che solo sei anni più tardi sarebbe stato immortalato nelle pellicole della neonata Settima Arte.
Eppure c’è molto di più, in questa scrittura densa di piani, significati e rimandi.
Al di là del sogno prometeico di ri-creare la vita – portato quasi accidentale, qui – , ciò che questo Der Professor sovietico primariamente persegue è invece l’atavico sogno dell’Eterna Giovinezza. Ironizza, il protagonista della trasposizione teatrale – geriatra, anziché urologo come nel romanzo -, nel riportare le piagnucolose lamentazioni di pazienti che ne affollano la sala d’aspetto. “Coi loro crani calvi o con le chiome malamente colorate” querulano anche una sola manciata d’anni per poter tornare ad essere credibili in quei “vestiti sgargianti e in quella biancheria da adolescenti, che si ostinano ad ostentare”, dice. E come non sorriderne, noi, membri di una società dell’immagine, a tal punto spinta, da scusare i suoi eterni bamboccioni con un’interminabile adolescenza, che (così si legge nel web) li accompagnerebbe fino ai 54 anni?
Poche, sferzanti ed efficacissime parole ed ecco creato quell’antefatto, che non ci vede più soltanto spettatori inermi a contemplare esilaranti bistiches linguistici e sorprendenti slittamenti di senso sweengati ad aggirar la censura di allora. È tutto un millimetrico gioco di parole-chiave, che ha profondamente a che fare coll’hic et nunc, mostrandoci, con la loro incessante e magmatica liquidità, il nervo egualmente scoperto anche nella nostra società. Così non importa che l’homunculus, fui Pallino – impara a dire di sé, quasi a rivendicare una nuova coscienza probabilmente sociale – , sia la caricatura feroce e grottesca del compagno (la testa piena di slogan, ma una qual certa difficoltà ad associare il significato col significante).
Non importa, perché lo stesso potremmo dire di tutte le categorie socialmente moleste in un ordine precostituito ergo intollerante della diversità – tematica, questa, di cocente attualità. E non è un caso che il cane sottoposto ad un feroce processo di umanizzazione ci venga anzi tutto mostrato in gabbia come un galeotto minus habens di lombrosiana memoria, a cui non a caso viene cambiato il nome in Homunculus. Imprigionato in una camicia di forza – alla “Qualcuno volò sul nido del cuculo” -, viene indottrinato a non dare nell’occhio, dando forma e corpo all’attualissimo spauracchio sociale del di-verso/av-verso.“Il riso uccide la paura, senza paura non c’è la fede, senza fede non c’è timor di Dio”, tuonava, Jorge, ne “Il nome della rosa”, paladino di ogni regime autocratico, non importa se religioso. Analogamente qui al fui Pallino viene spigato che la cosa peggiore è evocare il riso altrui: e la bestia si fa belva.
Quindi un testo di intima e profonda denuncia, questa scrittura/riscrittura bulgakoviana, che riesce ad essere così meravigliosamente scorretta da concedersi il lusso di un doppio e triplo salto carpiato, pur dopo aver magistralmente scoccato dardi fiammeggianti contro il politically incorrect – da un lato attraverso le perbenistiche parole del Professore demiurgo e pedagogo; dall’altro attraverso quelle dell’Homunculus “fui Pallino”, la cui “umana” costante sembra essere quella del ricondizionamento/indottrinamento, prima da parte del Professore, poi, contro di lui, dal Partito. È così, che arriva ad approdare ad una diabolica coincidentia oppositorum nel finale, che di pacificato ha solo l’apparenza.
Nella sostanza, resta la convinzione di una diversità inemendabile.
“Dentro hai sempre un cuore di cane”, gli ringhia, l’esasperato Professore, dall’anfratto più recondito del suo subconscio.
Solo un paio d’anni prima Freud aveva scritto “L’Io e l’Es”…
Se la riscrittura di Massini riesce a riportare sul palco un meccanismo a orologeria dalle variazioni sincroniche puntuali e ricorrenti come quelle di un sofisticatissimo carillon, non di meno fa la regia di Sangati. Con le sue macchine sceniche e botole a scomparsa alla Ronconi, duetta con spazi altrimenti vuoti, abitati da personaggi grotteschi, ironici, comici e surreali – eppure sempre ben dosati e mai inutilmente sopra le righe – quali, appunto, quelli di un tagliente e divertente carillon degli orrori. Strepitosa la prova d’attore di Paolo Pierobon/(fui) Pallino, che con inaudita nonchalance cavalca l’ andirivieni dei due speculari modi: dalla divertita e prosaica indolenza della bestia alla feroce socialità dell’homunculus/canaglia. Magistrali anche Sandro Lombardi, rivitalizzato da un ruolo che modula in maniera accorta e senza sforzo apparente, e Giovanni Franzoni, in contrappunto speculare di quella canaglia, che sa mostrarci nelle sue striate sfaccettature; così fanno anche i due personaggi femminili interpretati da Lucia Marinsalta, Bruna Rossi.
Ma allora: Chi è l’uomo e chi la bestia – o la virtù? Questo avrebbe potuto essere un dubbio pirandelliano. Bulgakov/Massini al contrario non hanno incertezza alcuna nel puntare il dito sulla can-aglia, inchiodandoci nell’immagine a gambe all’aria del nostro presunto buonismo. Ma, prima, argutamente ci sciorinano pillole di godibilissima antropologia e filosofia sociale e politica. Così, facendoci sorridere, chissà che non riescano a mostrarci che la distanza fra l’homunculus e lo Zoon Politicon non stia unicamente nella pallina ipofisaria, che, controllando gli istinti, ci appiattisce in una spaventosamente rassicurante omologazione.