Fassbinder e l’estraniata incomunicabilità del contemporaneo
Ad inaugurare dicembre, ieri, l’Accademia degli Artefatti ha portato in scena l’ultima replica di “Sangue sul collo del gatto” di Fassbinder, nell’omonima sala del Teatro Elfo Puccini.
Direttamente dal foglio si sala leggo: “Un racconto di cronaca o un esperimento fantascientifico? Il capitale o il sesso? […] Il tentativo di una spiegazione o la rivelazione della sua impossibilità? Melodramma o noir? […] Forse tutto insieme, in un triller socio-linguistico con un finale non certo sorprendente – la realtà è falsa – e un colpevole altrettanto scontato – il linguaggio. Ma anche una festa del disordine. Un gioco di società che sgretola ogni ideologia e utopia politica. Una coreografia del disfacimento. Un ballo in maschera sulle ceneri di ogni immaginario. […]”
Ed in effetti sì, c’è tutto questo, nella sarabanda di immagini, situazioni e stralci di accadimenti riportati dallo sguardo di Phoebe Zeitgeist, sorta di inviata interstellare, di cui annuncia lo sbarco un cartone animato naif, che, per chi lo ha visto, immediatamente richiama la figura di Eve nel disnayano cartoon “Wall-e”. Ed è esattamente quella, la suggestione: un’aliena che si aggira fra gli uomini, osservandone i gesti, imparandone – per mimesi – il linguaggio ed i comportamenti, ma senza arrivare a coglierne le reali intenzioni e le complicate dinamiche o dietrologie. Così non fa specie che, quando finalmente prova a ripeterne stralci di frasi – random, apparentemente -, quel che ne sortisca sia un’impietosa ancorché preterintenzionale denuncia: della banalità della vita di tutti i giorni, anche; ma, soprattutto, di quanto la mediocrità del quotidiano tenda a lasciar passare sotto silenzio quelle smozzicate timide denunce, che solo il timbro meccanico e privo d’intonazione di Phoebe lascia trasparire in tutta la sua lucida ed impietosa portata.
E che c’è, in questo quotidiano? Un susseguirsi di sequenze-racconto, animate da personaggi di una tale fragilità, sotto all’apparente ostentazione di status – ‘il poliziotto’, ad esempio, o ‘il legionario’; ‘la donna che vive in una comune di donne’, per raggiungere una più profonda auto consapevolezza o ‘il marchettaro’, che forse sì, potrebbe guadagnar soldi anche in altro modo, ma a lui va bene così -, che basta la voce dell’untore – “Tu morirai!”: cosa, del resto, tanto terribile, quanto scontata, a ben pensarci… – da gettarli nella più profonda disperazione: è lì che vediamo il poliziotto piangere e la donna di King Kong scoprirsi stizzitamente superstiziosa. Uno spaccato di vite precarie – nella consistenza esistenzial-relazionale, più che altro: come la scena-madre della donna abbandonata ben stigmatizza -, in cui si cova e monta una tal rabbia repressa, che non può non esplodere: fosse pur solo in una provocazione gratuita. “Tua madre è una troia”, detta così, a caso, per vedere chi la raccoglie: e scoprire che è il poliziotto, a cascarci – con le sue misure repressivo-punitive: chiara denuncia di una certa gestione del potere – e non lo scimmione, anche questo, credo, la dice lunga. E, fino a qui, mi ci ritrovo: col foglio di sala, intendo; meno, invece, sull’intento ‘politico’ o il riferimento al “Capitale”; ché, se vero è che c’è un macellaio che ammaestra Phoebe sul ‘giro d’affari’ – accompagnando le parole con un gesto tondo tondo, che lei subito impara e continuamente ripropone, a proposito o meno, in una gag esilarante – ed uno squallido commercio fra un protettore e la sua ‘protetta’, è altrettanto vero che quella economico, ideologico e politico, risuona solo come un’eco sbiadita, più a caratterizzare il tessuto sociale, che ad esser dibattuto in senso proprio. Più che altro sembra trattarsi di una commedia – questo il registro narrativo, nonostante la portata del dramma -, non tanto dell’ incosapevolezza – ci sono riflessioni di una lucidità lapidaria, quali quel: “Si sopravvive a tutto”, pronunciato dalla vedova del legionario, pur subito dopo aver confessato di non essere riuscita a leggere ‘la’ lettera dal fronte -, quanto, piuttosto, della necessità di fingerla, per poter sopravvivere. E’ questo, l’equivoco comunicativo in cui incappa una Phoebe che davvero si rivela essere ‘Zeitgeist’ – nell’accezione tedesca di: “Spirito del tempo’ –: ‘troppo Zeitgeist’, a parer di chi scrive.
Perché anche se, da una parte, si respirano – a pieni polmoni – il disagio serpeggiante, il rancore, la violenza e lo smarrimento di una Germania post caduta del muro, il riportato, invece, è di sequenze da film anni “70, con tanto di due-cuori-ed-una-capanna – salvo poi rivelarsi il crogiolo di ogni dissapore ed incomprensione di coppia – e figli dei fiori, esibiti in seppur candidi nudi integrali, indugianti sui propri stati di coscienza, ma calati in un meta contenitore, che fa tanto “California Dreaming”, come da subito la tipicizzazione del poliziotto – alla “Chips” -, prelude.
Sicuramente un cast di attori capaci, simpaticamente gigioni e di certo ben affiatati, in uno sconcerto sul cortocircuito linguistico, fino alle conseguenze estreme: la vampirizzazione da parte di chi, avendone imparato le parole, ma senza comprenderne il sottotesto, traduce, in quel gesto estremo, lo iato fra significante e significato.