Dittico della leggerezza: #1 “Gorla, fermata Gorla”
Se vero è che il teatro storicamente nasce da una pulsione sociale (oltre che religiosa e rituale), ci sono molti modi di fare teatro politico. Saperlo fare con leggerezza resta la chiave forse più efficace per raggiungere un pubblico quanto più vasto possibile.
Del resto: per chi si fa teatro, se non per gli spettatori?
“Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”
(Italo Calvino)
Certo poi leggerezza può avere declinazioni differenti. Può significare poesia sospesa o graffiante ironia: esempi ne sono i due spettacoli “Gorla, fermata Gorla” e “Supermarket a modern musical tragedy”, entrambi in scena fino a domenica 27 gennaio 2019, rispettivamente al Teatro della Cooperativa e al Teatro Fontana di Milano.
“Gorla, fermata Gorla”, testo e regia di Renato Sarti, racconta un episodio ancora vivido nei ricordi dei vecchi del quartiere, dalle cui testimonianza, infatti, nasce. È il bombardamento della scuola elementare Francesco Crispi durante la Seconda Guerra Mondiale: una strage di oltre 180 bambini.
Una volta paesino dell’interland a nord est di Milano, da anni Gorla è inglobata a tutti gli effetti, tanto da essere diventata solo una fermata della metropolitana nella direttrice verso Monza. Eppure Gorla, così come Turro, Precotto e, ancor oggi, Sesto San Giovanni, un tempo erano comuni a sé stanti: comunità autonome, dotate di usi, costumi, amori, umori ed un brulichio quasi campanilisticamente altro da quello, pur non dissimile, dei borghi limitrofi.
Ed è esattamente questo, che, anzitutto, ci viene raccontato in scena. Non è l’irruzione diretta sull’atrocità di un bombardamento in fondo anche banale – nell’accezione arendtiana del termine – per come ci viene raccontato, ma lo spaccato di una vita vera, autentica, pulsante, viva e vivace quanto può esserlo solo quella rievocata attraverso le parole di due bambine. Sul palco, un pesante velo a schermarci dalle candide figurine cinguettanti, che a sua volta si farà poi schermo su cui proiettare, per contrasto, i luoghi dei civili e gli stormi della strategia dell’attacco aereo.
E, su un lato, lei: una contenuta, ma poi inevitabilmente incontenibile, sul finale, Nicoletta Ramorino (nel ruolo che fu di Giulia Lazzarini) a interpretare una delle poche superstiti. Da molte lune non più bambina, in fondo è lei, l’unica voce narrante reale.
Ed è proprio questo, quel che risulta interessante: la capacità della drammaturgia di far rivivere, come attraverso le nebbie della memoria, una “Milano” che non esiste più, ma che profuma d’ingenuità, laboriosità, spirito di comunità (memoria, inclusione, coesione sociale, sì, ma anche tolleranza e accettazione delle fragilità altrui: qualcosa di tanto importante specie in un tempo di attraversamenti come quello che stiamo vivendo), senza scivolare né nel buonismo, né nella retorica. Così le due bimbette – la brava bambina e la teppa, come si dice qui a Milano, interpretate dalle capaci e generose Federica Fabiani e Marta Marangoni – ci raccontano quell’età coi loro occhi ingenui. I giochi, gli scherzi, le rivalità, con cui i bambini ingannavano il tempo, pur di guerra, lungo il naviglio della Martesana, si colorano di dialettismi e parole in milanese, a restituirci la consistenza tonda della quotidianità. La veridicità è resa anche da considerazioni scomode, nel senso anti retorico del termine, pur soffiate nell’impalpabilità del ricordo infantile. “Come fai a sentir tutto il giorno la parola màma, màma, màma… – sembra giustificare, la bambina di allora costretta a lasciare la casa di corte dov’era nata e cresciuta – , quando hai perso un figlio” (e magari anche due o tre)? E senza enfasi ricorda: “Portala via o te la màsum!”. “Te l’ammazziamo!”, la minaccia delle madri rimaste orbe dei loro figli.
Eppure non c’è rabbia, ma profonda pietà. Pietà per quel dolore devastante (composta e atroce è l’immagine delle madri, dritte e afone come statue di sale, ai funerali comuni), al punto da aver divorato anche le generazioni a venire (dei nati dopo, a cui spesso veniva imposto lo stesso nome del fratellino o della sorellina morti, si dice: “Il troppo amore strangola”).
Pietà anche per quell’azione di guerra in fondo banale (la strage pare sia stata solo l’esito di un’azione di guerra nata male – e finita peggio -, che aveva ben altro obbiettivo militare), i cui esecutori materiali sembrano quasi essere non certo assolti, ma in qualche modo congedati da una responsabilità personale diretta.
Così il grande insegnamento qui resta la pietà: e la memoria, il monito.