Grossman secondo Bucci/Sgrosso: quando il lutto si fa incanto
Se c’è una nota che contraddistingue Le Belle Bandiere, storica compagnia teatrale che vanta illustri natali direttamente della scuola di Leo De Berardinis, è la capacità tutta loro di restituire il reale attraverso la lente dell’incanto. E non importa se poi lo stile sia il grottesco, l’onirico, il ridicolo, il comico o il paradossale: il loro tocco ha sempre la grazia di trasporci in una dimensione, che dice e non dice del reale – perché se del reale non smette di parlare, lo fa con quella leggiadria rarefatta, che è più vicina alla verità del sogno che della veglia.
E così non poteva che essere anche per “Caduto fuori dal tempo”, dilaniante romanzo di David Grossman sulla perdita del figlio in guerra, che, nelle loro mani, sublima quasi in una favola.
Lo esprime bene lo stesso Marco Sgrosso (attore, in scena, insieme ad Elena Bucci, oltre che coautore di regia e riduzione teatrale): “È un’opera in cui si precipita, risucchiati da un vortice di dolore che dalle prime righe si fa canto, le parole si moltiplicano facendosi sinfonia nella loro musicalità, che le rende “cuntu” […]”. E tutto sembra ruotare attorno a quel “c’è respiro nel dolore, c’è respiro”, su cui fa perno la nota di regia di Elena Bucci.
Se Grossman affida il punto di vista all’uomo che cammina sulle colline – quasi dantesco contrappasso, peripatetica prassi atta a sfibrare il corpo, chissà, forse per prosciugarne la forza vitale, se non davvero il dolore -, Le Belle Bandiere lo sdoppiano nel clone dello Scrivano.
Ex Giullare di corte, è stato incaricato direttamente dal Duca a raccogliere le testimonianze, carpendole nei vicoli lunari di un paese sospeso nel tempo. Eppure lo annota fin da subito: “Succedono troppe cose! Non sono sicuro di riuscire a prender nota di tutte…”, si lagna, facendo ondeggiare furiosamente nel nulla la candida piuma d’oca, in uno sbuffo immaginario, impalpabile come le voci di quei bambini, che non sono più.
Pantaloni scampanati, cappellaccio e lunga palandrana scura accesa da un boa scarlatto, è lui (Elena Bucci) il fool, che, con movenze lunari, si aggira fra i vicoli del paese addormentato per assolvere all’incarico impossibile. Questa, la fulminante metafora. E, nonostante una composizione scenica giocata per sottrazione, nonostante il nitido e suggestivo disegno luci (di Loredana Oddone) e la geometrica scelta di collocare i vari capitoli in siparietti, che ora si aprono e ora si chiudono, cadenzati, nella dimensione piatta e spiata del fondale nero (finestre, che, in qualche modo, ci proteggono, mostrandoci il dolore, sì, ma lasciandocene spettatori esterni), lo avvertiamo subito lo strisciar del perturbante, subdolo come irresistibili note di un arcano Pifferaio Magico. Le note reali in scena, invece, sono quelle della struggente fisarmonica dal vivo di Simone Zanchini, a cui sembra esser stato affidato l’intero compito emozionale. Suoi, gli strazianti assoli di pathos puro; suoi, i controcanti ai lai dell’Uomo che cammina sulle colline – “Uiiii” è la voce che s’inventa il padre, novello Orfeo, nell’ostinato tentativo di rincontrare il figlio in quel laggiù, che non sa se realmente possa esistere -, suoi i ritmi ticchettanti e sincopati e gli swing quasi cacofonici come quei lutti precoci, che non possono non stonare orribilmente.
E cosa ci racconta lo scrivano? La grimmiana favola di genitori prematuramente privati dei figli e di tutto quel dolore, che, nonostante il tempo, non sembra affatto attenuarsi. È l’uomo che cammina sulle colline – una sera, all’improvviso, a cinque anni dalla morte del figlioletto –, trascinando involontariamente con sé se non la moglie – “Ti avrei seguito ovunque, in capo al mondo: ma laggiù no”, dice lei, a stigma di tutti quei rapporti spezzati dal differente modo di elaborare il lutto -, tutta una risma di altri genitori “orbi” – il dizionario non contempla un lemma per significare questa particolarissima perdita, nonostante non fosse poi così rara, in tempi di alta mortalità infantile. Sono il ciabattino e la levatrice sua moglie – novelli Filemone e Bauci -: lui, con ancora in bocca i chiodi (“Dieci, come le ditine, che le baciavo…”), tutti diversi fra loro, storti, arrugini a insanguinargli la bocca (“Ma è da loro che traggo la mia forza”), lei, a vagheggiare ancora la culla della loro piccola Anna e a specchiarsi, frattanto, nello sguardo dolente di lui. È il centauro – “mezzo uomo e mezzo scrittoio”, così si definisce -, che non riesce più a scrivere -“Se non scriverò, non riuscirò a capire quella cosa che è successa a me e a mio figlio… quel dolore DEVO amalgamarlo in un racconto” – e, alla fine, lo affida al Pennivendolo, il cui personalissimo contrappasso, invece, lo obbliga proprio a scrivere e/ per non ricordare. È la tessitrice di reti, madre single, che ha perduto il figlioletto in mare… e, da allora, in quello strazio ci è rimasta impigliata; ed è il duca, oscuro mandante di quest’incarico, annichilito – come lo stesso Grossman – dalla perdita del figlio in guerra. Una pletora di personaggi dolenti, svuotati, esterrefatti: zombie in cammino, con tutta la valenza simbolica, mitica, filosofia e psicanalitica del caso. Sembrano rispondere a un richiamo oscuro, che li porta verso le colline – e poi, da lì, ad una conciliazione afona e corale, che è il desiderio di non dimenticare il prima, che la tragedia li spezzasse. Per dargliene un senso.
Così quel “C’è respiro nel dolore, c’è respiro…” è solo l’epilogo di un percorso. Mirabilmente sintetizzato dall’ultimo – dantesco – quadro narrativo, ci mostra, in un opaco controluce e fra pietosi fumi di vergogna, quasi la calata verso quel laggiù: il precipitare fuori dal tempo (la morte, per i figli, e l’annichilente lutto, per chi resta), il maledirli nel tentativo di ucciderli definitivamente (“Non vi avevamo protetti e voi: cosa avete fatto? Basta, basta: morite!!”) e, finalmente, la risalita verso la sola sopravvivenza possibile: il ricordo amorevole .
A farci vivere tutto ciò una Elena Bucci in stato di grazia e un Marco Sgrosso, che mai come questa volta, ha saputo donar corpo – e anima e sangue – a uomini e padri così differenti, respirando quasi i loro stessi umori, fino a distillarli nel toccante: “La morte di mio figlio mi ha reso il padre, che non sono stato capace di essere, miscuglio di padre e di madre. perché chi perde un figlio è irrimediabilmente madre.”
E se resta il dubbio, che la troppa bravura possa aver in parte patinato l’emozione, chissà che invece, questa non sia stata proprio una scelta: una carezza per l’anima, un dono per chi avrebbe potuto caderci dentro, per non essere loro stessi coltello, ma balsamo e unguento. Aggiungere sofferenza a sofferenza, in fondo: a cosa sarebbe servito?
Al Teatro Franco Parenti di Milano ancora solo fino a domenica 21 novembre 2021.