I Colla, Riserva Canini e la verità nel Teatro di Figura
Quanto spazio resta al teatro “tradizionale” in un trend progressistico per cui, se non lo sifa strano, si teme di essere liquidati – almeno, in certi ambiti – con sorrisetti di sufficienza o allusive spallucce di ostentata accondiscendenza, tacciati di esser lontani “realtà”? Certo, bisognerebbe anzi tutto capire cosa s’intenda per teatro tradizionale e cosa per quella realtà, che, l’ultimo numero del trimestrale Hystrio docet, oggi sembriamo – con… meraviglia?! – riscoprire essere il reale oggetto d’interesse della rappresentazione teatrale. Nonostante la corposa letteratura pirandelliana – “Il berretto a sonagli”, “Uno, nessuno, centomila”, “Come tu mi vuoi” -, nonostante le lucide parole di Amleto e, prima ancora, le sottili arguzie di Machiavelli, pare che ancora non tutti sanno che è più spesso la società il vero luogo della finzione – e il teatro, al contrario, sovente quello del disvelamento.
Paradossale. Ma ancor più paradossale, forse, risulterà il fatto che efficace strumento liberatorio della finzione del reale è il falso dichiarato. Una volta assunto come tale, infatti, spesso riesce a fare quel doppio salto carpiato, che gli consente di diventare prezioso elemento di svelamento.
È in questo senso che non solo ha un senso il teatro di figura, ma che, più radicalmente, un senso ce l’ha all’interno di una proposta capace di trasbordare i confini del teatro ragazzi per parlare a un pubblico adulto. Già, perché ci sono due preconcetti da sciogliere. Il primo è che il teatro di figura si esaurisca nei limiti del teatro ragazzi; il secondo è che, proprio per questo, possa essere adatto solo ad una narrazione edulcorata e pacificante del reale.
Non è, in fondo, l’antropomorfizzazione, un analogo processo di slittamento significante-significato, tanto ben noto ai cultori dell’allegorie e non solo medievali? Così, dal pennuto Rockfeller alle terribili figure mitologiche o a quelle delle fiabe, il gioco è sempre quello: evocare un pinocchio accondiscendente per poi tagliargli i fili – mostrandone, così, le potenzialità, al “riparo”, nel preventivo e condiviso patto della “finzione”.
Di più. Non è detto che il gioco debba per forza essere quello di smontare la macchina.
La splendida libertà, che il teatro di figura offre, consente di spaziare, da questo, fino ad una riproduzione del reale talmente attenta e accurata da ammaliarci con la sua sfrenata meraviglia.
Ecco perché, in un’unica riflessione, si può parlare di una compagnia come Riserva Canini, andata in scena sabato 8 giugno 2019 al Vimercate Ragazzi Festival 2019 con “Non ho l’età” (che sarà riproposto nella mattinata di domenica 30 giugno a Colle Brianza all’interno del Festival “Il Giardino delle Esperidi”), ma poi anche di una Compagnia Marionettistica, dalle consolidata tradizione e fama internazionale, quale quella di Carlo Colla & Figli.
Nel suo ultimo lavoro – ultimo lascito, quanto alla riduzione del testo, dell’instancabile figura portante di Eugenio Monti Colla -, la storica compagnia di maestri marionettisti non sembra minimamente mostrare i segni della tutto sommato ancora recente e certo sofferta orfanezza. “L’Isola del Tesoro”, infatti, godibile al Piccolo Teatro di Milano ancora fino a domenica 23 giugno 2019, torna a mettere in scena un classico: della narrativa, in questo caso, com’era stato già per “La lampada di Aladino”, sempre al Piccolo Grassi, a fine 2018 – nel venticinquesimo dal debutto al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Se la trama la conosciamo bene – il rocambolesco recupero di un tesoro in un’isola infestata dai pirati -, quel che sorprende, ancora una volta, è l’ostinata a l’attenta devozione a quel principio di realtà, che, a teatro – e tanto più in un teatro di figura –, ci si aspetterebbe poter essere facilmente disatteso. E invece no. Tutto è studiato in modo tale da farci scordare che ci troviamo di fronte a delle marionette: le scene, i costumi, le luci, l’animazione, ma anche i dettagli dell’arredo, il gioco delle miniature con cui animare i piani prospettici più lontani; e, ancora, le atmosfere, i canti da taverna – chi non ricorda, dall’eco della lettura della propria infanzia, il perturbante e sordo adagio: “Quindici uomini… sulla cassa del morto”? -; l’occhio di bue dal sicuro effetto cinematografico in soggettiva – quando il piccolo protagonista spia i manigoldi nascosto all’interno di un barile – e, non ultimo, la voce del giovane narratore, che è realmente quella di un bambino, con la sua innocenza cristallina e quell’erre moscia, che ce la rende subito simpatica come l’effetto-lentiggini sui visetti di certi attori-bambini dei telefilm anni ’60. Tutto è così preciso, minuzioso e dettagliato – dai boccali appesi in alto, nel bancone della taverna, alle manette, che incatenano i polsi degli schiavi di colore, cose fra le cose, nei traffici di merci, giù al porto… -, da non poter essere che ancor più stupefatti dalle scene, che, invece, ci stordiscono per la loro capacità di far irrompere il meraviglioso – dal lussureggiante volo di uccelli rari e bellissimi come le Paradisaeidae al galoppo di cavalli con tanto di gendarmi in groppa.
Non è, quindi, il falso, l’elemento giocato per stupirci; ma – come sempre – il ricco, il ridondante–eppure-reale, il meraviglioso inteso come ciò che quasi stordisce per l’effetto immersivo che ingenera, cifra di una poetica a tal punto votata al vero, da non voler rinunciare a quella dovizia di particolari, con cui, in maniera più o meno subliminale, il reale non smette mai di bombardarci. E se l’effetto colossal, a tratti, è garantito – complice anche, specie in questo lavoro, un ragguardevole numero di cambi di scena, che ci spalancano ambienti differenti e tutti minuziosi e sorprendentemente realistici -, in altri momenti tale è la capacità di evocare atmosfere intime e prosaicissime, che sono solo i guizzi di luce sui fili di nailon delle marionette a ridestarci da quell’incantamento.
Di tutt’altro approccio, invece, Riserva Canini.
Da “Talita kum” in poi, ci ha abituati a una fruizione minimale e a marionette a figura intera, in uno spesso dichiarato e spiazzante gioco di identità, sì, ma anche di intenzioni, che non può lasciarci comodamente accoccolati nella nostra comfort zone del cosa sia cosa. Così anche “Non ho l’età” comincia con una dichiarazione d’intenti: fuori campo, delle voci di bambini – lo spettacolo nasce da un progetto nelle scuole, come spiegherà il regista Marco Ferro -, a cercare di rispondere alla domanda cosa sia il tempo.
Ma uno spettacolo teatrale può decidere di assumere a tal punto su di sé questioni così cruciali, di quel che chiamiamo reale, da trasformarsi in un trattato di filosofia? Oppure deve rinunciare a porsi domande esistenziali, scientifiche, cosmologiche quali quelle sul tempo e sulla vita – e sulla vita prima della vita e su quella dopo?
Riserva Canini trova la propria strada affidandola agli oggetti. Una grossa corda, anzi tutto – forse cifra del tempo/vita, che nasce e si dispiega -, che prende forma nel bisticcio/gioco relazionale dei due marionettisti performer Manuela De Meo e Pietro Traldi. Seguendo le suggestioni delle voci adulte (una maschile ed una femminile, le parole cadenzate e quasi sospese in un’apparente assenza emozionale), dalla grossa cima si passa ad un immacolato boa di struzzo e ad un enorme sacco di iuta bianca – colore inusuale, certo, ma forse funzionale a quel teatro su nero, il cui effetto risulta forse smorzato dalla rappresentazione all’aperto, per quanto a tarda sera…
La suggestione è ancora quella iniziale. Una voce bambina aveva detto: “Senza il tempo, non si potrebbe vivere e camminare” e, ancora: “Noi siamo nati essendo scimmie”, che è il suo modo naïf di alludere alla teoria evoluzionista. Lo spettacolo, poi, non fa che dar forma, con la consueta, attenta e struggente cura a cui Riserva Canini ci ha abituati, ai pensieri delle due voci dialoganti. Colpisce l’intonazione pacata e quasi distaccata delle voci fuori campo – un lui ed una lei -, che dice di quella serena complicità, conditio sine qua non per prendersi la libertà di un così potenzialmente angoscioso brain storming. “Cosa immagini, quando finisce tutto? Come sarà la (nostra) morte?”, ma anche: “Ma quando siamo nati, cosa facevamo? Ti ricordi?” “Difficile dirlo…”
Forse per questo Riserva Canini affida il compito alle cose: l’asciutta simbologia della fune – coi suoi giochi, bisticci, frizzi e lazzi – e poi quella – dalla metafora del parto dal sacco di iuta al fulmineo rapporto con la madre – dell’immacolata scimmietta, medium e reale oggetto transazionale del nostro esser-ci. Non può non stupirci il suo curioso e circospetto guardarsi attorno, né ci lasciano indifferenti i suoi primi goffi tentativi di prendere padronanza di sé e del proprio corpo. Notevole è la capacità scompositiva dello strumento marionettistico, capace di zoomare sulle micro criticità – assemblando, qui, e decostruendo, nella non meno lirica condizione dell’anziano -, arti, menbra, teste, pance… vite: del tutto simili alla nostra.
E cosa resta, dopo essersi specchiati in una simulazione evolutiva, che dalla scimmia porta all’umana senescenza, passando attraverso venti e tamburi, domande senza risposta e infantili certezze ancora da mettere alla prova?
Forse la bellezza consolatoria dell’incontro reale: non importa se in un pas-à-deux, nella scoperta dell’infanzia o nel pietoso sostegno a chi questa vita sta per lasciarla – a poco a poco -, ma fra braccia che ancora sapranno stringersi in nuovi volteggi.