Ifigenia, Medea e Alcesti: L’anima nera delle donne
C’è qualcosa d’ immediatamente mistificatorio, quando si pensa al cinema. Si dice: “E’ la vita, questa, non è un film” o, ancora: “Quello si è fatto un film…”, alludendo, nella vulgata quotidiana, all’indugiare in fantasie proprie, senza che queste abbiano poi molta attinenza con la realtà; e ci parla – ancora – di ‘proiezione’: scomodando o meno l’accezione psicanalitica.
Così, non si può far a meno di interrogarsi sull’intento drammaturgico dell’ambientare “Solo di me. Se non fossi stata Ifigenia, sarei stata Alcesti o Medea” – di Francesca Garolla e per la regia di Renzo Martinelli – in un cinematografo – pure un po’ d’année: con tanto di sedili ancora in legno ed un ipotetico film proiettato in bianco e nero… -: questa, la prima sollecitazione.
Sulla scena, frattanto, gradatamente prende corpo e si consuma quella che, a tutta prima, sembra una ‘educazione sentimentale’: due donne adulte ed una giovane – forse, ma altrove si insinua abbia più di quarant’anni… -: le prime a preoccuparsi di impartirle le ‘regole’, che le serviranno per aver ‘successo’ – leggi: ‘accalappiarsi un uomo e tenerselo in modo esclusivo’ -, mentre la malcapitata – azzittita da un pertinace freudiano singhiozzo – si ritrova ad esser vittima in balia delle due megere.
Pur in quest’ambientazione spiazzante, all’inizio sembra trattarsi solo di una sorta di ricerca della candidata ottimale: nonostante le caratteristiche fisiche della prescelta non sian certo incoraggianti – mancano un senso florido e fianchi forti, spie di una buona predisposizione alla riproduzione; niente spalle larghe indispensabili a sorreggere il peso dei bambini; e capelli cortissimi, per di più, che poco ne ingentiliscono il volto -, si è trovata solo lei; e così le due donne si accingono a procedere: prenderne le misure, trasmetterle le regole – ubbidienza, bellezza, onnipresenza, sex appeal… – e spogliarla dal suo inadatto abitino verde per rivestirla con un simbolico abito da sposa. Ma c’è subito qualcosa di sinistro, che trapela da tutto ciò: perché le due donne, che via via capiamo essere rispettivamente la ‘santa’ Alcesti e la ‘strega’ Medea, si lasciano sfuggire – a tratti – squarci delle loro esistenze, rinfacciandosele reciprocamente, quasi che l’essere, ciascuna, qual effettivamente è fosse la sola alternativa possibile al voler evitar d’essere, invece, com’è l’altra: in una sorta di dicotomico aut-aut, a cui sembra porre fine solo il laconico: “Basta!”, unica parola fino a qui pronunciata dalla donna-oggetto Ifigenia; ma poi – subdolo – riprende, il gioco al massacro: fino alle conseguenze ultime. E le due archetipe alternative si rivelano sempre più nelle loro sordide miserie: non ‘madre amorevole’ e ‘moglie irreprensibile’ è l’Alcesti nelle parole di Medea, ma donnicciola incapace di qualsiasi vita autonoma – al punto da relegarsi al passaggio di consegne dal padre al marito –, efficacemente interpretata da Anahì Traversi, che sa renderla stigma della perfetta ‘donna-di-casa-e-di-salotto’, che le cela sotto il suo formalismo impeccabile, le insicurezze e frustrazioni di una donna dal temperamento flaubertiano – ; né, Medea, è quella donna forte e risoluta, che vorrebbe apparire, ma furibonda e sacrilega assassina dei suoi stessi figli, nell’ottima resa di Valentina Picello, brava nel giocare sia i toni un po’ grotteschi e spiccioli della single in vena di auto assoluzione, che quelli alti della madre, che con folle lucidità teorizza la liceità di una sorta di aborto ‘a posteriori’. Al punto che Ifigenia vacilla – fisicamente, anche, nella sua camminata faticosa e incerta – e sembra voler rinunciare… Ma poi hanno buon gioco, le due: e lei s’immola al suo destino come con disarmante evidenza sa restituirci Paola Tintinelli, con la sua sapiente mimica volutamente naif, che fin da subito esprime tutta la predeterminazione di quel ruolo sacrificale, che sembra essere ineluttabilità di donna: a prescindere dalle modalità con cui verrà consumato.
Cosa ci resta, allora, di questo ‘film’ in fondo ancora da girare? L’immagine della subdola ferocia dell’anima nera delle donne – qui: aguzzine, esse stesse, di altre donne, pur essendo state, per loro stessa ammissione, un tempo loro per prima vittime -; l’abbagliante candore dell’anima ingenua delle donne – di quelle donne-muro, che nessuno sa capire e che si confondono, quasi, con la tappezzeria -, quando decidono di prendere in mano, forse un po’ donchisciottianamente, la loro esistenza, pur senza ben sapere dove andar a parare… fino a trovarne l’inaspettato senso in una visione – una cerva… -, magari soltanto quando resta oramai solo il tempo per morirle accanto; tre efficaci performance attoriali, all’interno di trovate drammaturgiche e registiche azzeccate: notevole l’ultima scena a tre: in cui il cinema ed il suo schermo si trasformano in ‘coro’, proiettando, amplificando e disambinguando la portata epica di questa tragedia fino a quel momento giocata nei toni quasi estranianti e discronici della contemporaneità.
“Solo di me. Se non fossi stata Ifigenia, sarei stata Alcesti o Medea”: ancora fino al 5 dicembre al Teatro i.