Il meravigliosamente ineffabile ‘niente’ di Totò e Vicé
Ci sono pezzi di Teatro che vanno conosciuti. Ecco a cosa servono le personali, di tanto in tanto dedicate a questo regista o a quell’attore/compagnia. In questi giorni, al Teatro Elfo Puccini di Milano, due drammaturgie di Franco Scaldati, portate in scena, come oramai di consuetudine, dalla Compagnia Vetrano/Randisi . “Totò e Vicé”, dal 9 al 14 aprile 2019 e, per qualche giorno con la possibilità di assistere a entrambi gli spettacoli, “Ombre Folli”, in replica fino al 18 aprile.
Sono quarant’anni che il duo palermitano calca le scene. Scuola Leo De Berardinis, sì, ma poi Enzo Vetrano e Stefano Randisi sono stati capaci di un percorso, che ne ha saputo focalizzare una cifra assolutamente autonoma e originale. Spesso in sinolo con le drammaturgie del compaesano Scaldati, nato sarto e con una formazione scolastica che arrivava fino alla quinta elementare e poi approdato al teatro quasi per incontro fatale: nella sua bottega, a cucire abiti di scena e respirare quel mondo, a cui ha saputo donare l’originalità della sua lingua e una scrittura capace di uno sguardo di surreale e spiazzante umanità.
Così è anche per entrambi gli spettacoli proprio in questi giorni in scena all’Elfo.
Si è già parlato altrove di quelle “Ombre folli”, viste a Milano, un paio d’anni fa, nella rassegna (Il)lecite Visioni, tradizionale appuntamento autunnale nel centralissimo Teatro Filodrammatici.
Quanto a “Totò e Vicé”, da molti considerato forse il (loro) lavoro più iconico, sono tantissime le considerazioni che affiorano…
Intanto che è un testo fatto di niente. Quasi biglietti della follia sembrano i dialoghi, giocati nell’anafora del “Totò? Vicè?”, a cui seguono domande dall’impalpabilità esistenziale o stralci di ricordi, sogni o visioni, puntualmente sviate dalla loro meravigliosa e poetica inconsistenza. Pizzini, coriandoli di riflessioni così surreali e fugaci, da riportarci ai sospirosi non-sense di Ficarra e Picone. Nessun intento comico, qui; solo la sospesa poesia – complice anche il Canone B di Pachelbell, che risacca, a ondate, con il suo ri arrangiamento destrutturante – di due personaggi che, chissà, forse sono angeli, ma che faticheremmo a credere demoni. “Totò? – esordisce Vicé – Tu sai se pure gli uomini prendono il treno?”, gli, chiede, entrando, mano nella mano, con le loro ingombranti valigie da emigranti appena sbarcati e con quel delicato candore con cui si accompagnano e sostengono solo i bambini – o i matti. O forse sono solo ombre (folli) – che, qui, è un diverso modo per dire personaggi nati dalla penna di uno scrittore. Così non può non riecheggiare quel “della stessa sostanza dei sogni”, che tempestava nella scrittura del Bardo. Invece loro si definiscono fatti piuttosto di mollica, con sottile omaggio alla tradizione di quel popolino, che sa di lavoro e di fame, di cui scrivevano Scarpetta o Eduardo, Totò o Verga. E, se no, si dicono fatti di cotone fino fino o solo segno sopra alla carta […] e, se non esiste matita e carta, noi non siamo. E se non siamo umani, non siamo… o sì?, si chiedono questi che vanno, ma non sanno dove… attraversando stanze… vuote. Tante quante sono i sentimenti degli uomini.
Secondo, poi, che proprio questo niente apre a diverse suggestioni. Da En Attendant Godot – in quelle due figure di clochard intente a… ingannare il tempo? – ai becchini, a loro modo ultra mondani, shakespeariani, fino a quei lanternini, che formano un evanescente cerchio magico sulla scena, ma che sembrano avere valenza drammaturgica prima ancora che registica. Non meno profumano di Sicilia, col loro immediato riferimento a Pirandello. Eppure non meno ammiccano alle tremule e ingannevoli lucine delle lampare – spiazzanti cieli capovolti, in cui le stelle si mutano in occhi e il cielo in un mare all’incontrario – che popolano i loro sogni deformati. In questi, ciascuno dei due si scopre nella propria ombra e scopre l’altro nell’immagine di sé riflessa nello specchio. È un doppio legame, che sembra segnare non solo Totò e Vicé – al punto da riportarli indietro dal regno dei morti, finché questa non sarà sorte di entrambi -, ma anche gli stessi Vetrano/Randisi, oramai così meravigliosamente in simbiosi coi personaggi doppi di Scaldati. Fanno propria la sua parlata arcaica e dialettale, eppure priva dalle concessioni triviali di un Testori, ad esempio, o, in epoca più recente, di un Borrelli, e la trasformano nella lingua di angeli dalla consistenza umana o – reciprocamente, ma che poi è lo stesso – di uomini angelicati, quasi, dalla surreale inconsistenza del reale.
Come sempre ottimi, in scena, Enzo Vetrano e Stefano Randisi. È attraverso la loro prossemica che passa l’integrale umanità di questi personaggi – anziani, matti, surreali – e attraverso un lavoro vocale in falsetto come quello di vecchie comari, bambini o esseri comunque marginali e proprio per questo forieri di sguardi imprevedibili. Nessuna sconcezza o trivialità in loro, nessun ossessivo umanissimo accanimento di quelli che pur ci si potrebbe aspettare da senza tetto reali. Ce li mostrano, invece, come costantemente sospesi in un’aurea di idealità, che è dichiarato amore per l’uomo e per le sue fragilità. Accorta, la loro regia, nel farci a tal punto appassionare al personaggio, da scusargli quel costante “Chi ni sacciu…” o, ancora “Non ci pensau…”, con cui sembrano scacciare l’inarrestabile rivolo di domande e suggestioni, che costantemente riaffiorano in loro. E invece no: perché è proprio in quelle sconnessioni, repentine distrazioni e poi di nuovo riprese, che si annida la verità di questi personaggi-bambini, che, nonostante le fattezze, altro non sono se non angeli in allenamento e ancora in fase di lallazione.