Il porfido ultimo atto del signor giudice
All’interno di “Sogni Possibili 2.0” – rassegna di teatro amatoriale, che porta in scena fino al 17/01 progetti degli studenti dei vari corsi -, venerdì 10 gennaio ha debuttato “Porfirij – Ultimo Atto”: fortemente voluto da Diana Ceni – pure interprete del monologo -, adattato da Serena Lietti e per la regia di Alberto Oliva e Mino Manni.
Liberamente ispirata al dostoevskijano “Delitto e castigo”, la storia immagina un monologo finale – sorta di redde actionem – di Porfirij Petrovič. Il giudice, che nel romanzo ha indotto il protagonista alla confessione, per un beffardo gioco del contrappasso qui a sua volta diventa imputato innanzi al più intransigente dei magistrati: lui stesso… E c’è tutto, in quel suo ultimo atto: la claustrofobia di un uomo, che sente ormai trascorso il proprio tempo – la scena lo mostra nello splendido alloggio governativo, dove ha speso la miglior parte della sua esistenza, a riporre in buon ordine le proprie carte, all’indomani della pensione… – e l’inevitabile tirar le somme su come siano andate le cose – come capita: i ricordi d’infanzia, di giovinezza e poi, via via, fino al diabolico, nell’accezione dostevslijana del termine – e come avrebbero potuto invece andare. Non è a se stesso, che indirizza il soliloquio: ad ascoltarlo, la blatta fortuitamente catturata – ma poi: “La fortuna non esiste!” tuona, l’irreprensibile: “ Anni di pedinamenti e appostamenti…” -, insetto dall’esoscheletro durissimo – legge poi da un libro: il primo che poi ripone nello scatolone… -, il ché gli offre lo spunto per sciorinare la teoria della superiorità degli insetti sugli uomini: destinati, i primi, a conquistare il mondo – proprio per la loro capacità di resistere ed infestare, nascondendosi in qualsiasi pertugio -, condannati, gli altri, a scomparire – essendo anonimi, parassiti e schiere di anime morte. Né sa resistere – in questa stagione estrema della sua vita: mentre avverte l’angoscia della fine che incalza – alla tentazione di un duello con Dio: che è sì quello stesso ordine e disciplina all’insegna delle quali ha speso la sua intera esistenza – “Se Dio non esiste, tutto è permesso” sembra inorridire sgomento -, ma poi gli sovvengono pure le sue passioni giovanili – la poesia… -: “Passione è trasgressione, sangue, orecchi mozzati…”, dice, abbracciando all’autoritratto con orecchio bendato di Van Gogh; e tira fuori gli scritti giovanili… che gli fan ricordare di aver creduto di avere talento, un tempo… ma poi, osare è una tentazione: e per osare ci vuole coraggio!
Ma lui no: è nella umanità inutile – se non per trasmettere la specie -, che s’identifica Porfirij: essendo stato anche lui esponente della schiatta degli uomini rigorosi, cristallini, quelli che non hanno mai rischiato e mai trasgredito. Uomo tutto d’un pezzo come suo padre – sembra dirci -, ma che poi ci mostra come tutto si sgretoli: nel suicidio di quell’uomo riservato, tranquillo e silenzioso, così come nel suo aver sempre vissuto rintanato dalla vita reale: giudicando e condannando – ed anche il codice vien gettato nello scatolone… – per finire, ora, a chiedersi il senso di un rigore che lo ha solo lasciato solo. La pièce potrebbe chiudersi in una strozzata vertigine nichilistica. Ma non si piega al gioco, questa reinterpretazione di ‘Porfirij’! E così, come posseduto, diventa esso stesso sinolo oppositorum: ed è lui al tempo stesso il giudice-e-il reo confesso (in dilazionati quadri narrativi si trasforma nella coscienza – ma: dolente! – dell’assassino), lui stesso uomo-e-donna – la disgustosa strozzina assassinata: ed è proprio quest’assunzione di genere, che giustifica Diana Ceni nelle vesti di una figura maschile -, sempre in bilico ad una omosessualità, che è quella dello stesso Tchaikovsky della colonna sonora, ma – in modo almeno latente – pure del signor giudice, come risulta dal ricordo di quell’unico tratto di dolcezza del padre – ascoltar musica, dividendo la stessa poltrona, in un’intimità tale da procurargli un piacere quasi fisico.
Tutto questo ci raccontano il testo, ma anche la regia, giocata – quest’ultima – sugli assi puliti e cartesiani dei tre punti/snodi drammatici: sulla sinistra, il tavolo da sgombere, al lato opposto un mobiletto con sopra una misteriosa scatola – si scoprirà poi contenere gli effetti personali dell’assassino – ed il grammofono – e sovrastante un quadro del Cristo non solo morto, ma significativamente deposto –; sullo sfondo il suddetto autoritratto di Van Gogh: non a caso troneggiante a centro palco.
Così non fa specie quel liberatorio e svolazzante ballo finale: che forse tradisce un po’ il pensiero del buon Fedor, ma che accomiata il pubblico con uno spiraglio di speranza, entro un mondo così avaro nel fornircene.