Il vivo e vitale ‘tramonto’ di chi vuol ancora amare
Un’operazione ‘furba’, quella che Emilio Russo – qui drammaturg nonché regista, assieme a Caterina Spadaro – ha messo in scena al Tieffe Menotti dal 6 al 18 maggio.
Furba per una serie di ragioni di ordine differente…
Furba, anzitutto, perché è stata in grado di captare un’esigenza trasversale e latente, in seno al pubblico teatrale degli abitués, e cioè un qual certo bisogno, ad bel momento, di provare a sperimentare cosa si provi a stare dall’ altra parte, a calcare la scena e a guardare verso il buio della platea – paralizzati dall’emozione -, anziché, come di consueto, semplicemente spiare – dal buio – le passioni che si agitano in scena. Furba, perché in questo gioco ha saputo individuare i candidati ideali in una fascia d’età, a cui non così spesso guarda, il nostro mondo contemporaneo ed edonista. Eppure sono proprio loro – gli over 60 -, i soli detentori di una qual certa ‘stabilità economica’, paradossalmente, oltre che di una riserva di tempo – la pensione: questo sconosciuto… Chi meglio di loro, poi, può vantare quel bagaglio d’ esperienze, battezzate dalle lotte e dalla temperie sociopolitica partecipazionista forgiatasi degli anni “60 e “70? Oltre al fatto che, se i loro nonni erano considerati vecchi, in quella fascia d’età, i nostri arzilli over 60 mostrano spesso una vitalità, una pletora d’interessi ed una vivacità anche mentale da fare invidia a tanti nerd ed emo simil depressi, che non sanno andare al di là di un’inerazione virtuale magari anche sotto le mentite spoglie di nick name... Furba – diciamolo -, anche perché mettere in scena i nonni significa ipso facto richiamare a teatro quei figli, nipoti, amici, curiosi, che forse non altrettanto spontaneamente avrebbero scelto di trascorrere una serata a teatro, specie in quella stagione in cui diventa più ammiccante l’idea di starsene a far serata sui navigli, per tanti giovani – e meno giovani – milanesi.
Ciò premesso, però, non si può negare che quest’operazione sia pure azzeccata. Perché gli attori – tutti non professionisti – si prodigano e non lesinano sia nella preparazione – lo spettacolo è frutto di un laboratorio selettivo, a cui i sedici superstiti si sono sottoposti con ritmi da non far invidia a quelli dei colleghi professionisti – che nella generosità, impegno, disponibilità a prestar corpo, voce ed emozione ai coetanei protagonisti dell’omonimo romanzo di Guido Conti. E così ci raccontano la storia di una vigilia di Capodanno – “l’alba del nuovo decennio, che è l’ultimo del millennio…”: siamo fra il 1989 ed il 1990, quindi -, trasformandole in occasione sia per restituirci lo spaccato delle dinamiche degli ospiti – ciascuno ha le proprie caratteristiche, bagaglio biografico-esistenziale, cultura d’appartenenza come la tipicizzazione dell’introflessione dialettale, ad esempio, ben rimarca -, che per farci pervenire le eco – storiche, oramai, più ancora che semplicemente di cronaca – di quel che accade fuori da quelle mura – così la finestra affacciata su una pianura disegnata coi tratti naif di chi debba poter vedere solo un mondo fittizio ed edulcorato, prima di chiudere gli occhi, improvvisamente diventa un proiettore televisivo, a restituire i tratti storici più salienti di quegli anni – dalla caduta del muro di Berlino a Tienanmen a Ceausescu. E a nulla valgono, i rimbrotti della terribile monaca; il messaggio degli ospiti è chiaro: non sono ancora trapassati e sapere cosa succede fuori dalla villa è un modo di farlo accadere – ergo: essere – anche fra quelle quattro mura.
Un gioco di coreografie, spostamenti, equilibri di parti divise fra i vari attori/personaggi, con alcune trovate registiche suggestive: il ‘corteo funebre’ per la degente che muore; ma suggestiva anche la scena della tombolata, in punta di proscenio, come in una parata ideale, un: “Eccomi!” sussurrato alla vita ed ai suoi pur forse ripetitivi, ma goliardici e vitali rituali. E poi le scene di ballo – e la proiezione fuori campo delle voci/pensieri di ciascuno: gridate, come quelli di chi ha poco tempo, forse, per poterli sussurrare ed attendere che qualcuno li raccolga e faccia proprio… -, i coretti più o meno irrispettosi – in quel perfetto stile goliardico, Bertolotti docet, che serve ad esorcizzare l’altrimenti disperazione… – , le boutades su quella sottile linea di grottesco, in cui scivoliamo, quando non siamo più troppo presenti a noi stessi – “Ma tu lo sai chi era il mio maestro?”, ripete, ossessivamente in romagnolo, un vecchietto alunno del Duce quand’ insegnava ancora alle elementari: e, anche questo, in fondo, è un modo per far incontrare la Storia con le storie…
Ma il grande tema – trasversale, anche questo – è sempre l’amore: “Cos’è la vita… senza l’amore…”, cantano, a più riprese – compreso dopo lo scroscio degli applausi a fine rappresentazione. E mettono il dito in uno dei forse ancora pochi tabù di questa società erotica ed erotizzante in maniera sfacciata, ma che poi vuole nasconderselo che, finché il cuore batte, abbiamo tutti bisogno d’amore: e se anche si pensa che “i vecchi non amano, sono mezzi morti… quel che serviva non serve più… e che senso ha, l’amore platonico?” – questo dice, sotto un accecante occhio di bue, Duca, in un napoletano che sa subito di un certo teatro alla Eduardo –, fors’è proprio in questo bisogno umano – ahi, troppo umano – che si riallaccia il filo dell’empatia fra le generazioni: umane.
Una commedia dai picchi amarcord, quindi, questo “Tramonto sulla pianura”: ancora stasera e domani al Tieffe Menotti.