Impantanarsi… è un attimo!
Credo che ci siano dei distinguo da fare, a proposito di questo “Il pantano” – testo di Domenico Pugliares e per la regia di Renato Sarti – da ieri, 8 gennaio, al Piccolo Grassi e dove resterà in replica fino a domenica 12.
Intanto cominciamo dalla trama: tre quadri – tre, come i canti danteschi… nella cui letteratura si pesca a piene mani – per raccontarci il – personalissimo e probabilmente solo sognato – processo ad una donna mutilata – questo il termine scelto – dal suicidio della figlia. Già perché è subito evidente che la situazione di sopravvivenza della donna è talmente innaturale, che perfino il dizionario ne fa opera di rimozione, non riuscendo a fornire un termine per definirla – esiste orfano’per il figlio che sopravviva al genitore, vedovo, se ti muore il coniuge… ma se è tuo figlio ad andarsene per primo, tu: cosa sei? -; qui, in più, si rincara la dose costruendo l’intreccio di una madre che ne assiste – ignaVa, ma, per certi aspetti pure ignaRa… – al suicidio. Poi l’ éscamotage per cercar di salvarla – umanamente, intendo – sembra essere quello di scegliere che sia ‘pazza’ – bordliner, dicono; ma forse qualcosa in più, a giudicare dal fantasma di quegli occhi, sinistri compagni nella rievocazione dell’elettroshoc: che la spiavano, anzicché aiutarla. E via a questo fantomatico processo, dove, se nel primo quadro sono Dio – soprattutto – ed il diavolo a contendersi l’analisi delle ragioni ed intenzioni di una scelta che non è stata fatta – questa, di fatto, sembrerebbe essere la sua grande colpa -, nel secondo i due si trasformano in – perfidi! – Teletubbies – quanto mai appropriati, in una scenografia ambientata nell’area-giochi di un parchetto volutamente un po’ d’antan… – a rintuzzare la dialettica fra argumenta pro – “Non ne hai colpa tu: eri malata e dovevi prima guarire te stessa…” – ed argumenta contra – “La colpa è tua: sei restata ad assistere senza fare niente…” -, travestiti da ‘buona’ e ‘cattiva’ coscienza, ma risultando spesso invece più il surreale e maligno duo de ‘il gatto e la volpe’… L’ultimo quadro è quello esplicativo, diciamo così. Dopo che nella sequenza precedente la madre ha potuto ripercorrere la propria storia personale e prenderne coscienza – non a caso si conclude in quel determinato modo, il secondo ‘atto’ di questo percorso ideale -, ora è riaffidata alle parole del tandem Dio/diavolo: ma è Lucifero, stavolta, a far da mattatore, mettendola di fronte alle sue responsabilità – paradossali e di gusto sartriano –, al punto che la ‘condanna’ – che c’è, checché se ne dica: fredda e tranciante come la lama di una ghigliottina mediatica – sembra essere emessa, nonostante tutto il bel parlare di ‘libero arbitrio’ e ‘libera scelta’, semplicemente perché ‘così è stato scritto’ – “Colpirne uno per educarne cento…”: questa, l’altra ideologica ratio… – al punto che ha buon gusto, il diavolo, nel provocarla: “Prega pure il tuo Dio! Se tu sei qui, Lui ha già deciso. Ma tu prova a pregarlo…”
Ed ora veniamo ai distinguo: la drammaturgia, intanto. Un testo denso, quello di Pugliares – ‘verboso’ è stato detto… -, ma che se ha l’ambizione di sciorinare Dante, ha subito poi l’accortezza di farci sapere di che canto si tratta e di cosa si tratti in quel canto – III canto per gli ‘ignavi’, VIII per gli ‘accidiosi’… fino al VI per i ‘golosi’ -; un testo ricco di immagini e suggestioni: soprattutto quelle messe in bocca alla madre, Maddalena – probabilmente un nome dalla scelta non casuale, che immediatamente allude alla ‘peccatrice’ per antonomasia, quella che ha rischiato di essere lapidata e poi se l’è sfangata solo per l’altrui… ignavia, infondo -, interpretata da una splendida Cecilia Vecchio, che riesce a restituirci tutto il disarmante candore di un mondo un po’ border, ma anche la grettezza e il sord(id)o egoismo di chi è troppo lontano da se stesso per poter entrare in ascolto con chicchessia; e che in pochissime battute riesce a evocare l’asetticità squallida ed anaffettiva di una realtà manicomiale più spesso allusa che raccontata. Ma anche un testo coraggioso ed ambizioso, che si picca d’intrattenersi in sottili – ed impopolari – distinguo – dal retrogusto teologico, oltre che filosofico… – come quello sciorinato già dall’incipit da un dio impietoso e ieratico, che scandisce i tre capi d’accusa: assenza di dolore, stato di soddisfazione, mancanza di bisogno, spiegandoci immediatamente perché gli siano imputati come colpe ed all’interno di quale sistema etico di valori. Già, perché credo sia questo, il grande merito dell’autore: potersi prendere la libertà d’introdurre anche i più corposi degli argomenti, proprio perché non difetta della disponibilità di renderceli fruibili; effetto che ottiene, del resto, anche tornando – seppur con una sensazione di ridondanza, talvolta – più e più volte su concetti/formule ostici; ad esempio: “indifendibile fortino, che tre altari non bastano per controllarne il perimetro” è l’espressione con cui spesso viene stigmatizzata Maddalena, per trasmetterci al tempo stesso l’inadeguatezza, oltre che la non disponibilità, del suo mettersi in contatto col mondo, compito probabilmente eccessivo, per chi si senta così vulnerabile. E ce n’è una miriade, di formule/immagini di questa portata. Encomiabile, poi, è anche il suo modo di trattare la malattia mentale spesso giocato come carta vincente per accattivarsi un certo pubblico, qui – mi sembra -, invece restituito con quella realistica invettiva – a tratti – di chi in tale realtà ci si trova a dover mettere mano: e deve imparare ad indossare i guanti – dato palesato anche dall’azzeccata trovata registica di farli indossare perfino a Dio e al diavolo… e pure i Teletubbies li portano: eccetto che nel breve istante in cui la Buona Coscienza tende la mano alla Cattiva per aiutarlo a risalir sul palco; quando, cioè, non sta maneggiando il corpo del reato…- come Maddalena ricorda facessero, in manicomio.
Rispetto alla regia: spiazzante, benché – invece – azzeccata, l’idea di giocarsi un testo del genere in un luogo e con delle figure così apparentemente easy. Penso ai pupazzi, ad esempio; ma anche a un Dio e Diavolo in abiti da tempo libero o alla stessa collocazione in un’area-giochi per bambini: che un po’ ha sì a che fare con ciò di cui si sta parlando; un po’ ben restituisce quell’immagine di squallore ed isolamento esistenziale, che ci fa pensare a solitarie pause-pranzo trascorse nell’illusione di ‘svago’ e che invece ci dice di una solitudine inemendabile, se non con la compulsione alimentare: come proprio questo è il caso… Stesso discorso per i movimenti scenici: un turbinante incessante andirivieni dei due – attorno alla povera, immobile, attonita, vessata, maneggiata madre: “una bambola col cuore di plastica…”, dice di sé – a significare l’instancabilità del tarlo. Sì, ma poi forse avrebbero dovuto conseguire scelte diverse: intanto una velocità di espressione meno compulsiva – ché, se serve a raccontarci della vanità di un parlare in cui dire e contraddire hanno lo stesso interscambiabile valore, ci sottrae però il tempo dell’ascolto e della sedimentazione di quelle parole-massi, di cui è ricca la scrittura si Pugliares -; secondo, poi, o si dispone di performer eccezionali oppure si rischia di assistere al loro penoso inseguir se stessi ed il loro iper-standar performativo: e fisici tanto dinoccolati e longilinei – mi riferisco al pur generosissimo Gianfranco Berardi, soprattutto – certo non aiutano. Più convincente la prova di Daniele Timpano, che ha saputo modularsi su corde variegate – dal folletto malefico con la voce in odioso falsetto ad un diavolo più incisivo ed irriverente… fino al mattatore che, deflagrata la quarta parete, scende fra le poltrone della platea a ricordarci che non è Maddalena, la sola sotto (auto)processo… -, meno, quella di Berardi, pur bravo, ma maggiormente penalizzato da un ruolo con minor sfaccettature.
Ad ogni modo, un testo ricco di potenzialità e margine di crescita in termini di messa in scena: magari già da stasera – e ancora fino a domenica – al Piccolo Grassi.